L’evoluzione più recente della diaspora degli autori iraniani racconta un Paese non più (tanto) nei termini di una faccenda di costume, di fiabe evocate alla Border (2018) di Ali Abbasi, con il distacco di chi vive altrove. Il regista Milad Alami nato in Iran, giunto in Svezia da bambino e residente oggi in Danimarca, torna con un lungometraggio, Opponent, presentato nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale, dopo The Charmer del 2017. La questione è privata ma anche politica, diversamente politica. Nel suo ultimo film Alami rappresenta la ricerca vana dei personaggi di un riscatto all’estero creando un’ulteriore ragnatele di storie.

Iman e la sua famiglia sono profughi in una località svedese sperduta, vengono trasferiti da residenza a residenza, mentre lui si arrangia come può consegnando pizze, fino a quando non decide di riprendere la sua carriera di wrestler per ottenere un permesso di soggiorno. «La mia esperienza di straniero in Svezia», racconta il regista, «mi ha permesso di creare una connessione emotiva con quello che andavo a scrivere, poiché conoscevo realmente alcune situazioni e i personaggi che ho descritto». Tuttavia, anche se Alami non rinuncia alla necessità di inserire nel racconto rifugiati veri e girare nei luoghi dove ha vissuto nella stessa condizione di attesa e trasferimenti, il film si dipana in un incubo noir. Il protagonista è braccato dal passato i cui eventi e dettagli che lo hanno portato a fuggirne si sbrogliano lentamente, al ritmo di un crescente climax da crime story. «Non volevo certo fare un film noir, che comunque amo, bensì cogliere l’elemento del mistero, proprio di questo genere cinematografico per allontanarmi dal melodramma che la storia evoca. Come in un film noir pensi di aver capito tutto, ma dopo le carte vengono di nuovo rimescolate», continua l’autore.

A di là dello scontro culturale e sociale più evidente pulsa un conflitto che, pur nascendo da quelle macro-tracce, prende una via autonoma, universale, rivelatrice di un impaccio esistenziale comune. Alla ricerca di una società a misura di sé, il protagonista vive la lotta fisica con l’ambiente incarnata dalle pose del wrestler, una lotta dell’individuo che tocca gli stereotipi della virilità in una visione del mondo patriarcale e violenta. Magnifico l’attore Payman Maadi che ha reso sue, con un allenamento preparatorio al film, le movenze da vero wrestler. «Questo sport in Iran veicola una forte mascolinità, con un retroterra da working class, in cui, naturalmente, la sessualità è tabù. Iman ha alle spalle questa reputazione dell’uomo di famiglia forte, una immagine classica che nel mio film è ribaltata».

Visivamente potentissimo, grazie alla fotografia di Sebastian Winterø, Opponent alterna gli angusti spazi chiusi degli alloggi per i profughi alla spazialità da terra di conquista delle distese innevate. La natura è espressione nuda di una lotta interiore dei personaggi; la foresta o un lago primaverile sono ammalianti quanto violenti e pericolosi, ma la città non è da meno, che sia quella tentacolare, vischiosa come la capitale iraniana, colta in un apparente frammento di pace domestica, o quella asettica europea.

Anche nel precedente lavoro del regista, The Charmer, il protagonista Esmail a Copenaghen da due anni tra un lavoro precario e la seduzione di giovani donne benestanti, è incastrato in una via di fuga dalla sua condizione che gli diventa fatale e, di nuovo, anche qui l’alone di mistero noir avvolge i personaggi. «L’identità che Esmail si è costruito per sopravvivere è in sintonia con l’atmosfera dark e fantasmatica della città in cui tutto sembra succedere nello stesso momento, come in un brutto sogno, in contrasto con la nitidezza cruda del villaggio da cui proviene dove non può indossare maschere ed è semplicemente sé stesso», spiega l’autore.

La rappresentazione dell’identità maschile in The Charmer è speculare a quella in Opponent. Esmail non reprime la propria sensualità, usa il cliché di cui conosce i codici, per sopravvivere: fa del suo corpo uno strumento così come Iman con il wrestling. Milad Alami con entrambi i film crea un gioco dell’oca fosco in cui né il partire, il restare o il tornare veicolano storie di successo. Non c’è reale conforto nemmeno tra le braccia «amiche» della diaspora e le strade grigie, i bar di lusso danesi, sono luoghi matrigni quanto la natura selvaggia che circonda Iman nel nord della Svezia.

Il tema della libertà, il frutto proibito da cogliere anche in un paese che, per legge, non ne è sprovvisto, si divincola da approcci romantici, dalle ipocrisie delle politiche di accoglienza. Nulla è come appare e la geografia non dà la felicità.