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Miguel Benasayag, malgrado tutto

Miguel Benasayag, malgrado tuttoMiguel Benasayag

Intervista Filosofo, psicoanalista e militante argentino ripercorre il suo lavoro e getta uno sguardo sulla contemporaneità «dalle passioni tristi»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 agosto 2023

«Abitare l’oggi, il presente, non significa immediatezza, bensì rendersi conto di ciò che suggerisce Antonio Machado in una delle sue poesie quando scrive che non esiste il cammino, il cammino si fa camminando». Filosofo e psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, oltre ad aver da sempre fatto di quel cammino un luogo collettivo e politico di condivisione, è autore di testi significativi, tra cui Il mito dell’individuo (2002), L’epoca delle passioni tristi (con Gérard Schmit, 2004), Contro il niente (2005), La singolarità del vivente (2021).

Aveva 21 anni quando, in pieno centro a Buenos Aires, viene arrestato il 18 marzo del 1975 per aver militato nelle fila dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo. Il suo ultimo volume, Malgrado tutto. Percorsi di vita (Jaca Book, pp. 256, euro 20, traduzione di Cristiano Screm), racconta quel tratto biografico perlustrando più in profondità le questioni che accompagnano Benasayag, nel suo lavoro di teorico e di clinico. Scelta editoriale indovinata, il libro comprende infatti due testi da leggere insieme: il primo è Malgrado tutto (pubblicato nel 1980 e comparso in Italia nel 2005 per Filema) ed è il diario che il filosofo prepara arrivato a Parigi alla fine del 1978 dopo la scarcerazione e l’espulsione dall’Argentina verso la Francia, grazie alla sua doppia nazionalità. Il secondo testo, Percorsi di vita, è una lunga conversazione con Anne Dufourmantelle pubblicata nel 2001, che ripercorre i nodi interni a quella fase detentiva e alle traiettorie che, da allora, appartengono alla sua costellazione politica.

Ad aprire il volume è un recente dialogo con Teodoro Cohen, del collettivo «Malgré tout», di cui anche lei fa parte dagli anni Ottanta. In questo scambio discutete del «cambiamento d’epoca», qualcosa che ci riguarda e chiama in causa il nostro agire e il nostro vivere.
L’epoca la penso come una sorta di organismo vivente, il modo di auto-costruzione del mondo. Il mondo si auto-costruisce da solo, con tutti i vettori che lo compongono, tra i quali vi sono gli esseri umani ma anche l’ecosistema, la geografia, la storia. I mondi conoscono le crisi, dei momenti in cui la maniera di svilupparsi, di esistere, compresa quella di essere umani, subiscono dei mutamenti radicali. Questi ultimi non significano che il vecchio mondo non persista nel nuovo, anche quelli futuri sono mescolati, tuttavia c’è uno spostamento dell’asse centrale. È ciò che stiamo vivendo, almeno da un secolo, e che non va più. Non funziona il produttivismo e quel che ne è risultato, ma anche il colonialismo e il patriarcato insieme ai modelli che hanno provato a globalizzare il mondo, a renderlo unidirezionale. Questa modalità di abitare ha messo in causa anche la continuità del vivente. Mi interessa il modo di auto-produzione materiale, oggettiva, dei mondi entro cui gli esseri umani esistono.

A proposito della parola «controffensiva» e il legame con la parola «contropotere», viene dato conto delle pratiche e della loro trasformazione, in un confronto tra diverse generazioni.
Una controffensiva è quella neoliberale, reazionaria, che storicamente ci mostra quanto il capitalismo, la spinta colonialista e colonizzatrice, abbiano tentato una restaurazione. Si può osservare, con immensa tristezza, quanto i movimenti di liberazione, rivoluzionari e alternativi, siano stati tutti più o meno schiacciati. Negli anni in cui lottavo in Argentina, il potere ha avuto veramente paura, perciò hanno scatenato questo tipo di repressione un po’ dappertutto. È stata in quel caso una controffensiva assolutamente vittoriosa. Uno degli insegnamenti principali della nostra epoca è sapere che non si tratta mai di prendere il potere per sovvertirlo. Credo si debba dimenticare l’illusoria temporalità del domani, della promessa. Se un potere cade ciò è dovuto alle lotte e le pratiche di un popolo, orizzontalmente.

La comprensione del tempo che abitiamo è un punto che ritorna in altri suoi lavori, per capire dove siamo e non dove andremo.
Per dirla con Kostantinos Kavafis, il viaggio è Itaca stessa. Dobbiamo impararlo, e non per questo immaginare un presente istantaneo, come quello cibernetico o della macchina, è piuttosto una dimensione che contiene il futuro, qui e ora. Risiede qui il cambiamento di paradigma, in particolare quando l’orizzonte di quel futuro da minaccioso è diventato anche un caos. Non si può predire cosa avverrà. Assumere questo presente con il coraggio, con la gioia, implica decolonizzare il tempo lineare dell’Occidente, il tempo della mancanza-a-essere.

In «Malgrado tutto», descrive alcune giornate e condizioni cui eravate sottoposti in carcere. C’è un paragrafo titolato «Una esperienza limite» in cui lei nomina «l’ipercoscienza della morte» come qualcosa che le ha provocato la sensazione di «non poterci fare nulla». Non si tratta di una resa ma di una presa d’atto della realtà.
L’ipercoscienza della morte proveniva dal fatto che in prigione si veniva torturati. Ogni giorno sapevamo di poter morire, in quel momento o nell’ora seguente. C’erano due possibilità: una era di essere oppressi definitivamente, l’altra era ammettere che se per quel verso non si poteva fare niente, doveva esserci qualcosa per cui potevamo proteggere la vita in senso collettivo. Eravamo convinti che non ci avrebbero uccisi tutti, non avrebbero potuto visto che non eravamo desaparecidos. Malgrado l’orrore, è stata per me una esperienza ricchissima e mi sono reso conto che la vita è qui e ora, nel suo stesso passaggio. Proteggere la vita significava fare in modo che i compagni non diventassero pazzi, aiutarli e aiutarci per mantenere una resistenza e una libertà. Anche quest’ultima ha a che fare con l’assunzione del presente, in carcere era chiarissimo.

Nella seconda parte del libro, quindi in alcune pagine di «Percorsi», si sofferma sulla libertà e sull’utilitarismo capitalista che ci rende schiavi. In che modo l’utile è una trappola e l’inutile è una risorsa? Concerne il «non servire»?
In generale è vero che, contrariamente a una visione coloniale capitalista occidentale, la vita è profondamente inutile, nel senso che non è utile a qualunque cosa esterna a essa. Anche i giovani devono rivendicare il «non servire», devono lottare contro questo modello di mondo «utile», che serve, devono resistere alla tirannia dell’efficacia a tutti i costi, alla retorica del «non perdere tempo».

Uno dei trionfi del neoliberismo è, secondo lei, l’averci fatto credere che la vita sia «solamente» qualcosa di personale.
Come diceva Marcuse, la vita è ridotta a un’unica dimensione che è quella individuale. Questo «io» esiste ma non è solo né autonomo. È invece questa una dimensione tra altre, e tra gli altri. La vita non è qualcosa di personale, e più agiamo in tal senso più è rimpicciolita. È possibile parlare dal vivente, di cui faccio parte. Situarsi vuol dire definirsi materialmente, nei tratti individuali che ci compongono. Tuttavia, anche da clinico, credo che più che a personalizzare e a soggettivare dovremmo aiutare le persone ad aprirsi alla multidimensionalità della vita.

La nostra società non riesce più a assumere le dimensioni tragiche dell’esistenza. Con delle conseguenze, lei aggiunge, piuttosto disastrose sul piano dei desideri, delle nostre relazioni.
Faccio un esempio, pensiamo alle conseguenze del clima attuale che ha fatto e farà morire delle persone. Fin tanto che qualcuno lo ritiene grave si è dentro un livello del patire la vita. Di contro, le dimensioni tragiche convocano questo stesso accadere in senso ontologico, dell’essere stesso. Generano consapevolezza, coscienza, che ciò che accade ci trasforma non pacificamente, bensì ci modifica come esseri. Siamo attraversati dall’epoca, ci fa e ci convoca, riguarda tutto il vivente. Ed è questa è la dimensione tragica.

Dopo tanta violenza, sofferenza e dolore, nel dialogo con Dufourmantelle lei sostiene che il male è assenza di bene.
Esiste un’estetica del male che per me è una fandonia da piccolo-borghesi annoiati. L’orrore, la distruzione sono evidenze senza nessuna importanza. Ciò che davvero conta è che possiamo vederli perché esiste un’altra possibilità, alla luce del bene, dell’amore, del desiderio di giustizia, della solidarietà, del pensiero. L’esistenza è pur sempre incredibile, malgrado tutto.

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