Da sempre il grido «uomo in mare» ha fatto scattare l’opera di soccorso. Il soccorso da parte di qualunque nave sia in condizioni di farlo. Non c’è nemmeno bisogno che un tal principio sia statuito in trattati e convenzioni internazionali. Che costituiscono il diritto del mare. Ma ci sono anche gli obblighi che, ratificandoli, hanno assunto gli Stati e l’Italia tra questi, per poter far parte delle “nazioni civili”. L’arrivo via mare ha caratteristiche materiali e anche un corredo di norme internazionali specifiche, che lo distingue da ogni altro attraversamento di frontiere per via terrestre.

Nel canale di Sicilia si trovano, e raccolgono persone in pericolo, le imbarcazioni della Guardia costiera e della Guardia di Finanza, i mezzi di una missione europea, i mercantili di passaggio e infine le navi delle Organizzazioni non governative umanitarie (Ong). Queste ultime integrano l’attività di salvataggio svolta dalle altre navi accompagnando al sicuro a terra circa il 14% del totale delle persone che sbarcano. I numeri parlano chiaro.

Lanciare il messaggio per cui sarebbe l’opera delle Ong a mettere in difficoltà l’Italia fa parte di una operazione politica che tende a criminalizzarle nell’opinione pubblica e agitare lo spettro del nemico (in più battente bandiera straniera). L’85% delle pesone che sbarcano arriva autonomamente a bordo di piccoli mezzi o sono recuperate in mare da Guardia costiera e da Guardia di Finanza, che le portano a terra, perché inizino nei loro confronti le procedure stabilite dalla Costituzione e dalle leggi italiane e dal diritto internazionale. Perché, mentre lo sbarco a terra in luogo sicuro è un obbligo che non ha eccezioni, il diritto alla successiva permanenza nel territorio dello Stato è vincolato dalla presenza delle condizioni di rischio di pena di morte, di trattamenti inumani o degradanti, di persecuzione politica, razziale o di genere.

È questo il rischio che viene valutato dalle Commissioni istituite per attribuire o negare asilo o protezione umanitaria.

Cosicché è giusto che il governo, come ha proclamato il ministro dell’Interno in Parlamento, segua «il principio che in Italia non si entra illegalmente e che la selezione degli ingressi non la faranno i trafficanti di esseri umani». Giusto ma ovvio, perché e purché la «selezione» sia fatta, secondo legge, dagli organismi a tale scopo istituiti, con le garanzie previste dalla legge. Non quindi in modo generalizzato, con ordini del governo relativi a gruppi di persone costretti per lunghi giorni a bordo delle navi, le cui origini e condizioni sono sconosciute alle autorità perché nessun esame individuale è condotto.

È stato detto che quelle persone non sono profughi ma migranti. Anche questa è una affermazione che non aiuta a comprendere, perché qualunque straniero, per qualunque ragione arrivi nella giurisdizione dello Stato e chieda di potersi trattenere, ha diritto a che la sua posizione sia esaminata, una per una. Perciò l’azione del governo di blocco delle persone a bordo di navi che le avevano salvate dal pericolo in mare è stata – questo sì – illegale. Essa tendeva – e per giorni e giorni ha costituito – un respingimento collettivo, ove l’unico elemento unificante era quello di trovarsi su navi di Ong. Come se questo fatto differenziasse la loro posizione rispetto a quella di chi sbarca o attraversa un confine terrestre con modalità diverse.

La politica migratoria riguarda la gestione del fenomeno, anche sulla lunga distanza, ed è di competenza dei governi. Ma non può farsi utilizzando singoli o gruppi di persone che sono portatori di diritti individuali e che non possono mai esser usati come strumenti della politica dei governi.

***Comitato per il diritto al soccorso:
Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Luigi Manconi, Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky, Alberto Mallardo (coordinatore).