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Michele Rho, ricette gourmet e bon ton in cella

Scena da «Benvenuti in galera»: in alto ritratto del regista Michele RhoFoto: scene da «Benvenuti in galera»: in alto ritratto del regista Michele Rho

Intervista Il regista milanese ha realizzato «Benvenuti in galera», documentario in bianco e nero sul «ristorante del carcere più stellato d’Italia» (come recita il sottotitolo), sorto dentro il compound della Seconda Casa di Reclusione di Bollate

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 17 febbraio 2024

«Prima di noi, fin dal Medioevo, quando i prigionieri venivano costretti a remare sulle galee, non si poteva certo dire “Benvenuti in Galera”. Mai. Ora si può». La battuta di Silvia Polleri, pronunciata con lo stesso brio che contamina piacevolmente tutto il film, racchiude in qualche modo il senso del progetto a cui lei stessa ha dedicato una vita: «Il ristorante del carcere più stellato d’Italia» (come recita il sottotitolo), sorto dentro il compound della Seconda Casa di Reclusione di Bollate, a Milano. Non uno qualunque, non un’osteria «della misericordia», come si era prefissata lei stessa vent’anni fa, ma un’eccellenza. Un orgoglio. Consigliato dalla Guida Michelin. E tanto basta.

Un’esperienza, inaugurata nell’ormai lontano 26 ottobre 2015 e imitata nel mondo – dalla Colombia alla Francia -, con la quale si misura il documentario del regista Michele Rho, figlio di Silvia Polleri, presentato al Filmaker Festival di Milano nel novembre scorso e da qualche settimana proiettato in varie sale e scuole d’Italia. «Benvenuti in Galera» è un viaggio in un mondo ai più sconosciuto, che rifugge da ogni facile retorica, commiserazione, enfasi o preconcetto. Mostra invece senza pudori tutte le sfumature di grigio di chi vive una vita privata della libertà, a tu per tu con i propri errori, i propri limiti o il proprio «pessimo umore». Ma anche il bisogno bruciante di voltare pagina, di avere un’altra chance, di cambiare pelle.

Ci prova Davide, faccia da attore, nervi a fiori di pelle e alle spalle la scuola di Gualtiero Marchesi. «Il carcere ha peggiorato alcuni aspetti del mio carattere», ammette. Ma poi con tenerezza racconta di quella vecchietta a cui una volta ha preparato il pasto, perché lui non cucina «solo per l’élite»: «Una parte la mangiava – ricorda emozionato – l’altra la riponeva nella schiscetta». Non è più un detenuto a tutti gli effetti, come gli altri otto che lavorano con lui, non torna più a dormire in carcere ma è sottoposto comunque ad una serie di limitazioni che pesano molto. Oggi è diventato lo chef attorno al quale ruota il ristorante di via Cristina Belgioioso. Offre salmerino e cultura di Nuova cucina italiana ad ospiti eleganti in sale che celebrano «Fuga da Alcatraz», «Le Ali della libertà» e «Il miglio verde». «Ma per arrivare all’eccellenza ho lavorato sei giorni su sette, venti ore al giorno, all’inizio», dice. Davanti alle telecamere di Michele Rho che lo immortalano in un bianco e nero acido e conturbante insieme, si racconta con gioia e frustrazione, ego e generosità, fastidio e ospitalità. Ma ride. E mostra quel «cameratismo» che insieme al «grande sacrificio» lo ha reso padrone del suo regno.

 

Al suo fianco c’è sempre Silvia, che questa storia l’ha iniziata vent’anni fa quando di galere non sapeva nulla. «Avevo chiuso da due anni il mio catering con cui coccolavo l’alta borghesia milanese quando l’allora direttrice di Bollate (l’illuminata Lucia Castellano, ndr) mi fece una proposta indecente: coordinare un catering prodotto dalla cucina centrale interna del carcere. Accettai alla condizione che si puntasse ad un prodotto da mettere sul mercato, altrimenti avrei preso in giro i detenuti. Fu così che entrai per la prima volta in un carcere», racconta durante la presentazione del documentario a Roma, ospite di Nanni Moretti al Nuovo Sacher. «Porterò il bon ton in galera», è la promessa che fece a se stessa.

Nella grande cucina centrale che prepara circa 350/400 pasti al giorno per tre reparti del penitenziario, e anche dolci su ordinazione dei detenuti per accogliere le famiglie durante le visite, Silvia ha lavorato per anni (e ancora vi lavora, producendo un servizio di alto livello) selezionando e formando personale, dai cuochi ai camerieri ai lavapiatti. «Ho avuto a lavorare con me circa 80 detenuti, tutti messi in regola, con buste paga e previdenze» versate dalla cooperativa Abc da lei fondata e che tuttora continua la sua attività di ponte tra il carcere e la società esterna. Solo dopo molti anni, e quando il catering si era fatto largamente strada nel mercato milanese, ha deciso di aprire il ristorante «In Galera». Direttore di Bollate, a quel tempo, era Massimo Parisi, un altro dirigente di grande levatura che scommise su quella strana idea.
Però, al netto dei piatti gourmet inizialmente preparati da uno chef esterno e della paura iniziale di non avere sufficienti clienti, il motore propulsivo del locale si fece subito fin troppo evidente. Fu allora che Silvia si pose il problema di «trasformare la morbosità» di quei clienti attratti dall’esotismo della location e che sfacciatamente chiedevano di quali reati si fossero macchiati quei giovani cuochi e camerieri. «Le scimmiette» è il titolo di uno dei sei capitoli del film, quello che racconta l’amarezza di essere marchiati per sempre. «Il detenuto non è un reato che cammina, è il tuo amico, il tuo vicino di casa…». «Adesso sono tornato all’origine, adesso sono io», si mette a nudo Said. «Non siamo nati ladri o assassini, si torna sempre alle origini», aggiunge il detenuto che è un altro dei “protagonisti” del film. E all’origine c’è il cibo, nutrimento non solo corporeo. E i carcerati italiani, si sa, forse più che altrove amano cucinare per sé e i propri compagni di cella. La vita del carcere, le sue relazioni e i suoi ritmi si sviluppano attorno allo scambio di sapori.

Superare gli anni del Covid e del lockdown non era scontato, per il locale di Silvia e Davide. Viceversa si è rivelato esiziale per molti esperimenti simili, in Italia e non solo. Ma la qualità ha premiato. Davide è oggi uno chef affermato. Altri, una volta guadagnata di nuovo la libertà, hanno trovato lavoro in ristoranti anche all’estero. Altri ancora coltivano quel sogno e continueranno a farlo, ripiegando magari nel frattempo su un altro lavoro. L’importante è che ci sia. «La recidiva in Italia – scandisce Silvia – è del 70%, la vergogna di una società. A Bollate scende sotto il 17%».

Intervista a Michele Rho
Viene dal teatro, il regista milanese Michele Rho, classe 1976, ma è dal 2002 che si dedica anche ai documentari. Con vari corti e con il film Cavalli, che è stato in gara al Festival di Venezia, ha già collezionato un discreto palmarès. Eppure mostra un attaccamento particolare alla sua ultima opera: il doc sul ristorante stellato del carcere di Bollate. Presentato prima a Milano, al Filmaker Festival e poi in sala per oltre quattro settimane al cinema Arlecchino dove ha ottenuto un buon successo di pubblico, e dopo la presentazione a Roma al Nuovo Sacher, con Nanni Moretti, ora Benvenuti in Galera sta iniziando a girare l’Italia con una distribuzione basata sostanzialmente sul passaparola, «come spesso succede con i documentari», dice. «E con nostra grande gioia – sottolinea Rho – ci stanno chiedendo proiezioni anche nelle scuole, tante e non solo a Milano».

Da nove anni mastica – è il caso di dirlo – notizie sul ristorante fondato da sua madre, ma il documentario viene fuori solo ora. Perché?
Finora non avevo avuto il coraggio di farlo. Da un lato l’idea di lavorare con mia madre non mi allettava molto (ride, ndr), ma soprattutto non sapevo bene come raccontare un tema così delicato evitando agiografie e luoghi comuni. E poi sentivo una grossa responsabilità nei confronti dei ragazzi e del progetto a cui mia mamma ha dedicato la vita. Ma poi, quando ho trovato dei fondi, non avendo più alibi, ho iniziato un lungo percorso che è durato più di tre anni.

Perché in bianco e nero?
Ho fatto questa scelta prima di iniziare a girare, perché volevo evitare una certa iconografia sul carcere rappresentato come luogo squallido. Volevo andare da un’altra parte, perché quelle che racconto sono storie di riscatto, di dignità e di speranza. E volevo dare un’immagine elegante, un po’ come di fatto è il progetto del catering e del ristorante. Non il catering «della carità» ma di alto livello, come lo ha voluto Silvia Polleri. E per me l’eleganza e la dignità trovano un senso nel bianco e nero.

Il film è diviso in sei capitoli dai titoli ironici. Cosa aggiungono all’opera?
Pur considerandolo un film documentario, a tutti gli effetti lo tratto come film. Li ho inseriti quindi per dare una sorta di ritmo e spezzare un po’ la narrazione di una storia che è girata sostanzialmente tutta in uno stesso posto: la cucina. Per me era anche importante sottolineare il tono del film, perché durante il film si ride. Fa ridere per la relazione che c’è tra Silvia, mia madre, e Davide, l’attuale chef. Ma anche per il fatto che questi sono ragazzi che scherzano, che cercano di alleggerire i drammi della loro vita.

Una parte importante è stata dedicata ai colloqui che Silvia ha con gli aspiranti cuochi. Senza chiedere mai loro il reato commesso, prende però informazioni sulla loro storia come detenuti. Perché è così importante questo dato?
Questo documentario ha al centro il tema del lavoro, perciò il colloquio di lavoro per me era un momento fondamentale. Ma è importante anche capire la storia della movimentazione del detenuto perché nell’immaginario collettivo non si ha presente quanto un detenuto possa girare tra i diversi istituti, e anche entrare e uscire dal carcere. Io stesso, prima, non immaginavo. Questo girare porta il detenuto ad uno sradicamento continuo che non aiuta il reinserimento. Volevo dunque che questi colloqui fossero una punteggiatura dentro la narrazione. L’ultimo colloquio che chiude il documentario, dove il detenuto risponde alla domanda «cosa vuoi fare» con un semplice «lavorare», per me era come dire: c’è chi entra e chi esce, e il ristorante va bene, prosegue, però qua, nel carcere, la vita va avanti con i suoi problemi. C’è gente che sta cercando di fare un nuovo percorso, che ha bisogno di lavorare. E questa è una denuncia importante da fare.

Nel raccogliere le storie di riscatto raccontate nel film, quante ne ha incontrate senza un lieto fine?
Del girato io non ho scartato nulla. Le spiego perché. Non avevo nulla di pianificato e per una prima fase molto lunga sono stato semplicemente a guardare, nella cucina centrale del carcere e al ristorante. Perché non sapevo come era la loro giornata: quando Davide andava a fare la spesa, quando arrivava la spesa, come preparava la cucina e la sala, eccetera. E chiaramente così anche loro hanno iniziato un po’ a conoscermi. In quel periodo ho visto detenuti che andavano e venivano. Le storie mutano velocemente dentro un carcere. C’è chi ottiene la libertà, chi invece arriva dentro. Solo dopo ho iniziato a girare, e mentre lo facevo ho iniziato a vedere dei fili di storie e anche una sorta di protagonisti, malgrado non si tratti di attori. Le storie hanno preso corpo. Ma non avevo la benché minima idea di come sarebbero andate. Quando poi ho visto il rapporto che Davide ha con mia madre ho capito che doveva avere un ruolo centrale. Poi c’era Said, che comunque era un cameriere storico e qualcosa della sua storia mi intrigava. E il pasticcere che lavorava dentro il carcere. Come dire, ho iniziato nella nebbia a individuare questi caratteri. Poi però è arrivato il Covid e ho dovuto interrompere, e non sapevo se e dove li avrei ritrovati. Ma questo è il problema che hai nel raccontare storie in divenire con protagonisti veri. Per esempio Davide, la sera in cui il ristorante ha festeggiato i sette anni di attività, come si vede nel film voleva mollare tutto e andarsene. Poteva anche finire lì il documentario. Di altre storie finite «male» me ne ha parlato mia madre, ma io non le ho viste.

Come è stato accolto il film dentro il carcere di Bollate?
Quasi tutti i ragazzi che hanno partecipato sono venuti alla prima del Filmaker Festival: è stato molto bello portarli al cinema. C’erano anche i poliziotti e il direttore del carcere. E la nuova brigata del ristorante, perché da quando abbiamo concluso le riprese, a parte Davide che è rimasto, c’è stato un grande ricambio dei lavoratori. È stata una bella emozione. Temevo molto l’opinione di Davide, perché è stato molto difficile girare con lui. Ha un carattere difficile, come ammette lui stesso. E invece Davide è stato molto contento. Ma la proiezione dentro Bollate ancora non l’abbiamo fatta. Aspetto ancora un po’ perché quello è l’apice del nostro lavoro. Per il momento traggo molta soddisfazione dalle scuole. Non ha idea di quante belle domande pongano gli studenti, soprattutto nelle medie. L’attenzione con cui guardano il film ci dà la speranza di una nuova società che sappia riflettere su questi temi senza pregiudizi.

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