Quando Michel Khleifi gira La mèmoire fertile, il suo film d’esordio che lo rivela nei circuiti internazionali è il 1980. La storia delle due donne protagoniste (montata da Moufida Tatli, grandissima regista tunisina), una scrittrice che vive nella West Bank occupata e un’operaia che abita invece a Nazareth, diviene il primo film realizzato nella Palestina sotto occupazione e segna l’inizio del cinema palestinese moderno in un racconto alla prima persona dei palestinesi che ne sa cogliere anche le fratture provocate dall’occupazione stessa. Ma Khleifi, nato a Nazareth, studi all’Insas di Bruxelles, la definizione di «padre del cinema palestinese» la rifiuta. Dice: «Non sono né padre né madre. Sento di aver fatto ciò che dovevo fare e ne sono felice. Il cinema per me poteva liberare nuovi orizzonti permettendo di capirci un po’ meglio». Da allora ha continuato questa narrazione fra storia e presente del suo paese affrontando critiche da ogni parte, fino agli attacchi che colpirono Route 181 (2003), firmato con il regista uisraeliano Eyal Sivan, la storia della Nakba e della colonizzazione di Israele dal punto di vista palestinese. Lo incontriamo a Roma dove è fra i protagonisti della rassegna organizzata dal Centro sperimentale, Diaspora degli artisti in guerra.

Una scena da «Nozze in Galilea» (1987)

«La mèmoire fertile» (1980), il suo esordio, è stato anche il primo film girato nella Palestina occupata. Che significato ha oggi di fronte a quando sta accadendo a Gaza? E cosa è cambiato da allora?

Ho girato La mèmorie fertile tra Nazareth e Gerusalemme, era la prima volta che si realizzava un film in Palestina e nei Territori occupati, io avevo in mente un film politico ma volevo anche andare oltre al cinema militante per farlo diventare qualcos’altro mantenendo gli elementi della lotta politica, dell’intimità e del conflitto. Volevo capire come il cinema ci potesse aiutare a costruire un futuro migliore individualmente e collettivamente. In seguito tutti i miei film si sono confrontati con uno stato d’eccezione, e con critiche che ne attaccavano il punto di vista provenienti da più parti, anche dagli stessi palestinesi. All’inizio ero solo poi pian piano sono cresciute nuove generazioni di filmmaker palestinesi; adesso ci sono tante registe e registi che non conosco e che sono magnifici, hanno messo in atto un cambio radicale nei temi prendendo direzioni inattese. Il cinema ci può aiutare a mantenere il contatto col mondo e a uscire dalla repressione. Io sono sempre dalla parte degli oppressi, e degli emarginati dalla società. Quello che sta accadendo a Gaza è solo l’inizio, accadrà di molto peggio, sarà terribile e mi fa molta paura. Sono davvero grato ai tanti giovani che documentano ciò che succede, filmano con sicurezza ogni istante del giorno, si muovono rapidamente e con determinazione. Le violenze israeliane vengono così mostrate a tutti smascherando le menzogne, le manipolazioni dell’informazione dominante non solo per quello che riguarda le news ma a tutti i livelli. Non capisco come il mondo che si definisce democratico riesce a tollerare una situazione così aberrante. Israele ha perso il contatto con la realtà, il modo in cui cancella la sofferenza degli altri per mettere al centro la propria, l’unica ammessa, è spaventoso. Ci vorrebbe una commissione di inchiesta per stabilire la verità sui massacri compiuti dall’esercito israeliano a Gaza in questi mesi.

Dal 7 ottobre ogni critica alla politica israeliana è invece censurata in tutti gli ambiti con un fronte unito dei paesi europei e dell’America:cultura, università, non si può manifestare per la Palestina, il dissenso è sotto accusa.

Proprio La mèmoire fertile subì la censura, nel senso che ero in gioco per la Caméra d’or al festival di Cannes ma non me la diedero, mi dissero che altre produzioni si sarebbero ritirate se avesse vinto un regista palestinese. Il problema è sempre la meschinità del pensiero sionista, che esige una guerra per ogni cosa, e che pur mostrando la sua mediocrità utilizza per trovare sostegni l’antisemitismo e si rifugia in esso: sia in una prospettiva storica – con ricostruzioni spesso poco aderenti ai fatti – che attuale. Ma il sionismo non è altro che il colonialismo nel mondo contemporaneo. E la questione in gioco si pone ancora una volta tra colonizzatori, gli israeliani, e colonizzati, i palestinesi. Il resto sono speculazioni che trovano il benestare di una certa parte internazionale perché questa esperienza colonialista non è mai finita, anzi continua a determinare il rapporto fra sud e nord del mondo. Il 7 ottobre per quanto terribile può dare carta bianca a ciò che succede ora? Nessuno se lo chiede, e purtroppo il massacro di Gaza è appunto l’inizio, la preparazione di un attacco più vasto che colpirà la Cisgiordania e altri paesi per allargare la colonizzazione israeliana. Del resto se si analizza la loro società non si trova mai uno sguardo su di noi. Uccidono i palestinesi per cancellarli ma questo è il crimine fondatore del loro stato a cui non fanno che tornare ogni volta. Loro sono le vittime e nessun altro può avere questa definizione, noi sappiamo che sono i carnefici ma questo non si può dire. È sempre il ricco contro il povero, il forte contro il debole. E il rifiuto di riconoscerci come palestinesi risale a ben prima del 1948, l’anno della Nakba, e cioè al 1905 con l’arrivo in Palestina dei primi gruppi armati sionisti in fuga dalla Russia che coltivavano il progetto di un unico stato ebraico con una sola lingua e una sola terra.

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Mohammad Malas, Palestina e Siria tra sogno e esperienzaLei è dunque convinto che il conflitto non si fermerà, anzi che si allargherà ancora.

Lo stiamo già vedendo, con gli attacchi costanti al Libano. Forse sono pessimista ma credo ci sia poco da sperare con le decine di migliaia di morti in questi mesi che continuano a crescere. E le azioni militari che sono criminali: quante vite è costata la liberazione di quattro ostaggi israeliani? Quanti giovani, bambini, anziani palestinesi sono stati massacrati? Per non dire delle prigioni israeliane dove si pratica la tortura, i detenuti palestinesi sono sottoposti a violenze costanti, privati di diritti, fino a sparire. Gaza è un terreno di sperimentazione del conflitto, e sembra anche di nuove armi, che prevede la distruzione della Cisgiordania, del Libano, della Siria con l’obiettivo di cambiare radicalmente gli equilibri e le economie della zona. Intanto la società israeliana sembra implodere fra il sionismo laico e un sempre più aggressivo sionismo religioso, mentre in Europa le destre estreme e i nazionalismi avanzano. L’idea di democrazia è oggi fragile e ha in sé molte contraddizioni che viviamo quotidianamente.

Gli artisti che provengono da realtà in conflitto sottolineano come sia ancora difficile in occidente trovare una libertà di espressione, quasi fossero costretti a lavorare solo sui temi legati al loro paese. Lei quando realizzò « L’ordre du jour »(1993) che non parlava della Palestina è stato molto criticato.

La visione dell’Europa esclude la complessità, è una questione di sguardi che nella società contemporanea per quanto concerne il mondo arabo fatica a andare oltre certi stereotipi che negano ogni forma di molteplicità. Si preferisce snaturare il reale quando non ne sappiamo abbastanza rifiutando di guardarlo, è un vero peccato. Eppure proprio il cinema, per fare un esempio, permette una visione plurale di cui dovremmo farci interpreti.