Mohammad Malas

Quando inizia a fare film Mohammad Malas ha in mente le immagini di Omar Amiralay, uno dei riferimenti del cinema e non solo siriano, e quelle di Tewfik Saleh che aveva girato in Siria Gli ingannati (1972), un film fondante nella narrazione della violenza israeliana contro i palestinesi dopo la Nakba. Per lui, che come dice, fa parte della «seconda generazione» dei registi siriani, il primo obiettivo era quello di rompere con il cinema egiziano che era il modello dominante. Racconta: «Tutto comincia grazie alla nascita dell’Organismo del cinema siriano che il governo aveva fondato per permettere una rinascita della nostra cinematografia. Noi che avevamo studiato cinema nei Paesi dell’est o in occidente eravamo molto critici verso il prodotto dominante del melò o del film commerciale all’egiziana, cercavamo altre storie, qualcosa che parlasse del nostro tempo». Lui che ha studiato a Mosca e prima di fare film insegnava al liceo, sin dagli esordi, nei suoi magnifici film, mette in campo una sfida che è politica e formale, e che interroga la Siria di allora, e anche quella di oggi, che si confronta con la posizione dei palestinesi nel mondo arabo, che dà voce alle utopie e ai sogni di rivoluzioni perduti. Per questo in Siria, dove vive ancora, a Damasco, non trova né appoggi né visibilità, e la censura si intreccia alle sue storie, entra nella vita dei personaggi che le abitano, è trama quotidiana. La notte (1992), che è stato riproposto alla presenza di Malas al Cinema Ritrovato, parte dalla sua autobiografia che lo riporta nella città di Quneitra, nel Golan siriano, distrutta dagli israeliani, laddove lui è nato nel 1945, e sulla tomba di un militante per la causa palestinese negli anni Trenta contro il dominio britannico. Alla sua figura si intreccia la storia del padre del regista, tra le migliaia di combattenti nella Grande Rivolta del 1936 in Palestina. Un racconto che arriva al 1967, e che nei destini personali vuole dare voce alla resistenza palestinese dimenticata o addirittura censurata. «Abbiamo dato vita a un nuovo linguaggio e al tempo stesso con questo film sento di avere posto le basi per una prospettiva personale, non solo storica» dice Malas che incontriamo a Bologna.

Cosa cercava di raccontare con il cinema?

La mia preoccupazione era la ricerca di ciò che è andato perduto nella nostra società, ciò che è stato cancellato, il mio primo lavoro I sogni della città (1984) è una ricerca sulla democrazia perduta nel mio Paese e dopo la proiezione di questo film al festival di Cannes ho sentito che avevo imboccato la giusta strada. La notte arriva dieci anni dopo perché ho bisogno di molto tempo per raccogliere una documentazione, riflettere, fare ricerche. È la mia ultima produzione con l’Organismo statale siriano del cinema, nonostante il successo internazionale venne accolto dalle autorità con molta prudenza e da allora sono iniziati per me gli ostacoli, non finanziavano nessuno dei miei progetti e sono stato costretto a cercare partner produttivi altrove, per lo più in Europa.

«La notte» ripercorre i luoghi distrutti dall’occupazione israeliana nella città di Quneitra. È come se a trent’anni di distanza, e in modo ancora più violento, sta di nuovo accadendo a Gaza.

Purtroppo la realtà della Palestina non è cambiata in questi anni, malgrado appunto il passare del tempo e il fatto che la causa palestinese sia molto cara ai paesi arabi non si riesce a fare nulla. È una delle ragioni per cui sono felice di essere a questo festival che già dal suo nome, Cinema Ritrovato, si propone l’obiettivo di restituire alle nuove generazioni dei film importanti per la memoria. E mi fa molto piacere che si interessi ai miei lavori realizzati trenta o quarant’anni fa.

Ha citato «Gli ingannati» che era stato girato in Siria ma raccontava la condizione dei palestinesi cacciati dalla loro terra con la Nakba, che cercano di emigrare nei paesi arabi clandestinamente morendo nel deserto. Oggi è come se questa condizione si sia allargata a una moltitudine di paesi e di migranti.

Quando ho realizzato i miei film la situazione non era questa ma annunciava ciò che sta succedendo adesso. Per darti un’idea delle mie preoccupazioni avevo scritto la sceneggiatura per un film che si chiamava Gli ingannati 2, e che purtroppo non sono riuscito a realizzare. Mi interessava confrontarmi con la questione palestinese senza essere un regista palestinese – come era allora Michel Khleifi che ha fatto dei film bellissimi – ma da un punto di vista arabo e siriano. Purtroppo me lo hanno impedito. Avrei voluto in quegli anni Ottanta anche dare voce ai sogni forse perduti dei siriani ma pure in quel caso non mi è stato permesso, così ho iniziato a lavorare a un progetto di documentario (Le Rêve, 1982), che raccoglieva i sogni dei palestinesi, ho vissuto sei mesi nei campi dei rifugiati in Libano intervistando le persone che li abitavano. Mi sono interessato soprattutto ai giovani, volevo sapere quale era la loro idea della Palestina. Su questa esperienza ho poi anche scritto un libro, e ho poi realizzato I sogni della città (1984), anch’esso legato come La notte alle mie memorie di infanzia, alla città che avevamo dovuto abbandonare per spostarci a Damasco, a quell’epoca politica e culturale che erano gli anni Cinquanta.

Un regista come lei che è stato costretto a lavorare soprattutto con finanziamenti esteri, avverte delle «pressioni», o delle aspettative rispetto alle storie che sceglie? Molti artisti che provengono da paesi non europei o occidentali si sentono spesso obbligati a fare film legati alla loro condizione di provenienza.

Accade quasi sempre specie se poi come nel mio caso non si ha alcun sostegno da parte del nostro Paese. I produttori ci chiedono determinati film ma io difendo ogni volta con i denti il mio progetto prendendomi tutto il tempo possibile per realizzarlo nel modo in cui l’ho pensato. È stato il caso, per fare un esempio, di Passion (2005) che racconta la storia di una donna, che ama la musica e in particolare quella di Oum-Khalsoum, e per questo viene accusata dall’intera famiglia di essere adultera, e «condannata» a morte. La vicenda si ispira a un fatto di cronaca, una produzione francese mi aveva contattato per farne un film centrato sull’idea del «delitto d’onore» in Siria con tutto ciò che comporta rispetto alla condizione della donna. Per me quanto era accaduto rappresentava piuttosto un delitto contro la patria, contro il nostro paese. In che senso? A cominciare dalla violenza di una presunta tradizione che viene esercitata contro le donne nella società, e che rimanda a quella esercitata dalla politica, nel mondo. Così ho accettato la proposta ma fingendo di andare nella direzione richiesta. Ho girato il film con pochi mezzi, c’erano molte manifestazioni contro l’occupazione dell’Iraq, gli attori vi partecipavano. Questo conflitto con la produzione ha fatto sì che non abbiamo avuto quasi alcun supporto distributivo ma io ero tranquillo con la mia coscienza. Un film deve essere lo specchio dei miei sentimenti, deve poter riflettere quell’equilibrio con cui mi confronto costantemente, fra la sofferenza emotiva e quella intellettuale.

Cosa pensa di questo nuovo conflitto in Palestina, un massacro che va avanti da mesi, e della censura che i paesi occidentali hanno messo in atto? Non è possibile esprimere una critica alla politica israeliana.

Per noi che siamo coscienti di come siano sempre stati utilizzati dall’occidente due pesi e due misure nella causa palestinese non è una sorpresa, anzi il fatto che questa politica sia stata resa evidente in questi ultimi mesi a tutto il mondo dà forse il senso che qualcosa sta cambiando. Adesso ognuno è consapevole di come l’America e l’Europa guardano alla Palestina, e questo isolamento delle parti israeliane e americane dà più speranza per le nuove generazioni che forse riusciranno a fare meglio di noi. Il cinema, l’immagine, in questo processo ha cambiato tutto, la comunicazione ha facilitato la conoscenza delle cose, smascherando le logiche del rapporto fra nord e sud del mondo e ciò che gli israeliani fanno in Palestina.

Torniamo a «La notte». Quale è stato il punto di partenza?

Dopo I sogni della città – che appunto narravano il tempo della democrazia perduta nel mio Paese – sono voluto tornare a un luogo perduto quale era la città di Quneitra dove sono nato che è stata occupata dagli israeliani e distrutta prima di restituirla alla Siria. Avevo a disposizione quattro linee narrative: la prima era il racconto orale di mia madre, la seconda il mio vissuto, la terza l’immaginario cinematografico, la quarta il desiderio di mio padre che aveva pensato per sé una morte diversa. Tra memoria e esperienza personale ho provato a trovare una voce che andasse contro le censure, e contro la libertà perduta del mio Paese.