Michael Moore in Trumplandia: Hillary, I Love You
Cinema Nel rush finale della campagna presidenziale esce a sorpresa il film del regista statunitense. Ma il soggetto vero è mobilitare il voto per Clinton oltre lo spauracchio del candidato repubblicano
Cinema Nel rush finale della campagna presidenziale esce a sorpresa il film del regista statunitense. Ma il soggetto vero è mobilitare il voto per Clinton oltre lo spauracchio del candidato repubblicano
Improvvisata in poco più di un giorno, il film finito solo alle sette di martedì mattina, era la «premiere» meno cerimoniosa possibile. Niente tappeti rossi, niente star. Eppure è bastato l’annuncio via Twitter, nel primo pomeriggio, che la gente si è messa in fila per ore, lungo la Sesta Avenue e Cornelia Street, nel Village. Alcuni avevano portato le sedie pieghevoli. Fatti entrare frettolosamente, sono arrivati luminari dei salotti progressisti newyorkesi – Amy Goodman, Phil Donahue, Joyce Bear, e Chris Rock. Da un traballante tavolino pieghevole, MoveOn.org distribuiva biglietti premio ai volontari che, il prossimo week end, si sono offerti di andare a raccogliere voti in Pennsylvania, di casa in casa, bussando alle porte degli indecisi. La sorpresa d’ottobre di uno dei più amati pamphlettisti della sinistra Usa si chiama Michael Moore in TrumpLand, un film che ricorda più i monologhi di Spalding Gray che i documentari di Moore, e che il regista di Flint -a New York per presentarlo- ha girato solo due settimane fa, «nemmeno un’ora dopo che è saltata fuori la registrazione di Trump sul pullman».
All’entrata del cinema, martedì sera, un collettivo di artisti di Brooklyn aveva portato una statua di Trump che, come un chiromante con gli occhi di fuoco, alla Zoltan, prediceva un futuro apocalittico; ma chi è venuto a vedere il nuovo lavoro di Moore sperando in una scorpacciata di gag anti-Trump ancora più feroci di quelle che ci riservano, ogni sera, comici come Steven Colbert, Bill Maher e Samantha Bee, sarà rimasto male. Perché, nei 74 minuti che si sono visti, il miliardario newyorkese è poco più di un’ombra. Seppure molto minacciosa. Egocentrico com’è, rimarrà male anche lui. La TrumpLand del titolo è Wilmington, in Ohio, un posto – ha spiegato Moore prima dell’inizio – dove su 15mila iscritti alle liste elettorali, nel 2008, poco più di mille hanno votato per Obama e dove, alle primarie 2016, il rapporto tra i voti per la Clinton e quelli per Trump era di uno a quattro. È nel cuore dell’America arrabbiata, sfiduciata, povera e rivoltosa che ha abbracciato la demagogia trumpista, da uno di quelli di che Moore ha definito «gli stati Brexit» – Ohio, Wisconsin, Pennsylvania e Michigan – che il regista ha messo in scena il one-man-show del titolo; davanti a un pubblico composto, per circa metà di sostenitori di Hillary e per il resto di un mix di trumpisti, indecisi e gente che vuole votare un terzo candidato.
Dal palco, Moore inizia la performance con un paio di sketch comici – gli spettatori messicani sono tutti radunati in galleria, dietro a un muro di mattoni in cartone; mentre su quelli musulmani, cordonati anche loro, aleggia minacciosamente un drone. Poi, con un riff che contrappone il cliché del liberal molle e indeciso (come lui) a quello del conservatore forte, risoluto e senza dubbi, stende un ramo d’ulivo a chi, tra i presenti, si è dichiarato pro Trump (il pubblico, ci spiegherà dopo la proiezione, è stato selezionato in modo da evitare «i fanatici»). Stereotipati dai controcampi in primo piano, gli uomini (tutti bianchi, non giovani e con la pelle arrossata dal sole) lo guardano con diffidenza. Lui sa che probabilmente non può convincerli, ma offre empatia. Cita i problemi economici, la paura, il senso di inutilità che sentono, ed emette un urlo tra il furioso e il disperato: è «l’urlo del dinosauro» che scuote i rally di Trump. «Sono anch’io, come voi, un dinosauro», dice Moore, beniamino dell’élite liberal detestata dai trumpisti, che però tiene sempre un’antenna tra le rovine dell’America post industriale da dove viene, e per i cui si battono i suoi film (era stato, non a caso, insieme a Michael Cimino, uno dei pochi registi di sinistra ad aver apprezzato/capito American Sniper).
Dopo il preambolo conciliatorio, un saluto ai millennials («siete una generazione che non odia. Non abbiamo nulla da insegnarvi») e dopo aver inquadrato una cosa che non si dice mai abbastanza, e cioè quanto, su quest’elezione, pesi ancora il carico della misoginia, Moore passa a quello che è veramente il soggetto del suo film: mobilitare il voto per Hillary oltre lo spauracchio di Trump. Contestualizzare questa corsa alla Casa bianca aldilà della scelta -per metterla come fa di questi tempi South Park- tra «un enorme testa di cazzo» (Trump) e «un panino di cacca» (Clinton).
Gigantografie di Hillary, giovane e bella, lo circondano sul palco; a un certo punto ne sentiamo la voce, nell’idealistico discorso di laurea, fatto a ventidue anni. Nel suo libro del 1996, Downsize This!, Moore aveva dedicato a Clinton, allora first lady troppo indipendente e già nemico pubblico numero uno non solo della destra, un intero capitolo, My Forbidden Love for Hillary. È a quegli anni, e alla sua battaglia persa per la riforma sanitaria, a Pechino, alle crociate per i bambini, alla rivendicazione di un suo ruolo politico alla Casa bianca.. che Moore ci riporta («i giovani non possono ricordarsi»).
Da parte sua – chiarisce- lui non ha mai votato per un Clinton (nel 2008 era per Obama e alle primarie per Bernie Sanders. A Bill aveva preferito una terza via). A Hillary, non ha perdonato il voto a favore della guerra in Iraq e trova problematici i suoi rapporti con Wall Street. Ma, dice nel film, e ha ripetuto dopo la proiezione, questo non gli, e non ci, dà il diritto di stare a casa l’8 novembre. Sentirsi superiori è, nelle sue parole, «un gesto di narcisismo» che non ci possiamo permettere. Moore non è un comico da stand up e il suo monologo riesce meno nelle iperboli («votiamola perché Hillary è come un Ninja. Isis scapperà dalla paura». O, peggio ancora, «Hillary potrebbe essere il nostro papa Francesco») che quando tratteggia Hillary Clinton come una persona che ha lottato con tenacia e convinzione per degli ideali importanti e condivisibilissimi. E un politico che andrà allo stesso tempo, appoggiato e criticato. «Come dice Bernie, il nostro lavoro comincia il 9 novembre».
Michael Moore in TrumpLand, che uno spettatore ha definito «una lettera d’amore per Hillary Clinton», in realtà arriva a dire poco più di «diamole una chance!». Ma lo fa in modo intelligente, e molto sentito. Il film, uscito ieri a Ny e Los Angeles, sarà in altre sale tra oggi e le elezioni e presto disponibile su iTunes. Moore ha detto che, da qui all’8 del mese prossimo sarà on the road per incoraggiare il voto.
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