L’occasione è quella che è e quindi va da sé che Giorgia Meloni, in Albania per la visita all’hotspot di Shengjin, non risparmi sulla propaganda, tanto più quando mancano poche ore al voto europeo. «Se quello che qui abbiamo immaginato funzionerà, e funzionerà, – assicura la premier – allora avremo inaugurato una fase completamente nuova nelle gestione del problema migratorio. L’accordo potrebbe essere replicabile in molti paesi, potrebbe diventare una parte della soluzione strutturale dell’Unione europea».

L’ennesimo spot elettorale, certo, che però questa volta potrebbe essere più vicino alla realtà di quanto forse sperato dalla stessa premier italiana. Presente da anni ma sempre sotto traccia, la voglia di esternalizzare i rimpatri dei migranti sta prendendo sempre più piede in Europa tanto da attirare l’attenzione di molte cancellerie, a prescindere dal colore politico. E non solo. La prima a parlare del patto tra Italia e Albania come di un «modello» è stata infatti Ursula von der Leyen aprendo di fatto la strada a un via libera da parte di Bruxelles. Per la presidente della Commissione europea, hanno reso noto il 13 dicembre scorso fonti Ue, l’accordo raggiunto tra Meloni ed Edi Rama sarebbe «un esempio di pensiero fuori dagli schemi basato su un’equa condivisione delle responsabilità con i paesi terzi».

Era l’annuncio tanto atteso da Palazzo Chigi, anche perché per Bruxelles il meccanismo messo a punto da Roma e Tirana, e in base al quale a valere nei Cpr albanesi sarà la giurisdizione italiana, è «in linea con gli obblighi previsti dal diritto dell’Ue e internazionale». Parole che, ad esempio, in Germania hanno l’effetto di mettere d’accordo la Spd di Olaf Scholz, che non ha mai nascosto l’interesse per l’esperimento italo-albanese, con la Cdu. Di più: entro il 20 giugno il governo federale dovrà presentare alle regioni i risultati di uno studio fatto dal ministero dell’Interno sulla possibilità di esaminare le richieste di asilo dei migranti «in paesi di transito o terzi», come farà l’Italia in Albania. «E’ un modello interessante con cui mi sto confrontando con il mio collega italiano» Matteo Piantedosi, ha detto pochi giorni fa la ministra dell’Interno Nancy Faeser.

Ma il fronte di chi sogna un proprio modello albanese da replicare è molto più largo. Come dimostra la lettera che 15 paesi hanno indirizzato il 16 maggio scorso alla Commissione Ue per chiedere di trasferire i migranti irregolari in paesi terzi. In particolare Italia, Danimarca, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Cipro, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Romania e Finlandia hanno chiesto alla Commissione «l’esame della potenziale cooperazione con i paesi terzi sui meccanismi di hub di rimpatrio, dove i rimpatriati potrebbero essere trasferiti in attesa del loro allontanamento definitivo». Nel frattempo c’è chi fa da solo. Come il nuovo governo di destra olandese che ha annunciato di voler chiedere «al più presto» l’uscita del paese dalla politica europea di asilo e migrazione.

Cosa accadrà nel prossimo futuro ai migranti che arrivano nel Vecchio continente dipenderà molto anche da che tipo di Europa uscirà domenica dalle urne. Dal primo luglio la presidenza di turno dell’Unione spetterà all’Ungheria e questo non mancherà di rafforzare il fronte dei paesi sostenitori di una linea ancora più dura nei confronti dei migranti. Ma un peso decisivo lo avrà anche il nuovo presidente della Commissione Ue, sul cui nome, invece, regna ancora molta incertezza.