Povero Leo in questo esordio «stecca» al Mundial, il suo errore dal dischetto – ipnotizzato da Halldorsson – costa due punti all’Argentina che impatta 1-1 contro i sorprendenti islandesi, al debutto mundial. Non basta l’esordio di Higuain – peraltro a otto minuti dalla fine – l’assedio finale e un tiro del «piuma» a uscire di un soffio dopo qualche minuto di frarstornamento. È un uomo solo, Messi, con il suo sinistro al miele, anche se è chiaro che la sentenza «definitiva» non può arrivare da questo esordio certamente macchiato da mille ombre. Perché questo devo essere il «suo» torneo. Deve esserlo perché lo sport, il calcio soprattutto, presenta il conto, sa essere crudele, verticale. Darwiniano. Sei il migliore di sempre, anche se non pretendi di esserlo, anzi schivi omaggi e titoloni? Arriva un momento in cui i secondi devono per forza di cose lasciare il proscenio ai fuoriclasse.

Forse è un discorso inutile, un trofeo dipende da tiro che solletica un palo, da un errore di un compagno, da una svista arbitrale. E Messi ha vinto con il Barcellona, più volte e con il marchio della casa bene in vista. Ma tutto rientra nelle leggi non scritte dello sport. E quindi deve arrivare fino in fondo con l’Argentina, eternamente ricca di talento e indolenza, per sedersi a quel tavolo con pochi, pochissimi posti a sedere. Alì, Merckx, Jordan, Federer, Pelè e Diego, per restare al pallone. Ed è proprio l’ombra del Diez (che ieri ha cercato di consolarlo con alcune dichiarazioni del post partita) che ancora lo accompagna, a 31 anni, dopo quattro Champions League vinte da star con il Barça – quasi 600 reti in carriera -, che ha vissuto e sorriso più in Catalogna che a casa sua, a Rosario, dove dice di voler concludere la carriera. La resa dei conti, per cercare di invertire una striscia di sanguinose sconfitte con la nazionale – dalla finale dei Mondiali di quattro anni fa alla doppia, sanguinosa, Coppa America persa ai rigori contro il Cile – è quasi necessaria.

E non perché Neymar chiede il permesso di prendersi il suo trono, oppure Cristiano Ronaldo – tripletta alla Spagna all’esordio – che sgomita per il sorpasso, per il sesto Pallone d’Oro che inevitabilmente finisce al fenomeno della nazionale che vince la Coppa del Mondo. Ma proprio per mettere le caselle in fila, perché una leggenda come Messi non può non alzare la Coppa del Mondo. Il discorso vale per l’argentino, non per Ronaldo. Perché il portoghese è un fenomeno, già leggenda perché oltre ai gol, si è costruito tutto, dal fisico al tiro, alla leadership.
MESSI invece è un predestinato, astro lucente quando aveva ancora i denti di latte, che a meno di dieci anni e con quasi dieci centimetri in meno dei pari età li seminava sui campi in terriccio come mosso da un joystick, da un mouse. E uno così non può restare senza un Mondiale. Come se Michael Jordan non avesse vinto un titolo Nba, oppure Federer, con un elenco di tornei del Grand Slam vinti ma senza Wimbledon, l’erba, il saluto dei regnanti inglesi dalla tribuna.

E forse per Messi il timing è ideale, forse la serie di sconfitte con l’Albiceleste si davvero è fermata qualche mese fa, con l’Ecuador avanti di un gol nella sfida che valeva il volo per la Russia nel girone di qualificazione sudamericano e l’Argentina scavata in viso dalla paura, dalla disperazione. Messi era fuori dai Mondiali, i compagni di squadra sotto ipnosi, il peso dell’ennesimo fallimento avrebbe portato la Pulce lontano dalla 10 di Diego. E invece. Tripletta agli ecuadoregni, il terrore cedeva il passo al sollievo. Argentina portata di peso ai Mondiali. E, per una volta, Messi eroe nazionale. In attesa del Giudizio Universale. E un posto riservato a quel tavolo.