Ti proteggo dagli abusi delle Big Tech, almeno da quelli più evidenti. E non è certo poco, in un mondo – nel resto del mondo – che sta andando nel verso opposto. Metto dei limiti – più tratteggiati che indicati – allo strapotere del “GAFA”, Google, Amazon, FaceBook o Meta che dir si voglia, Apple. Lo faccio. Ma poi ti lascio solo. Solo davanti alla loro invadenza, “te la vedi te”.

E’ in questo modo, infatti, che l’Europa si avvia a concludere un faticosissimo confronto destinato ad incidere direttamente sul lavoro, sulle abitudini e sulle vite di tutti.

Entrano dunque nella fase finale della discussione due mega-impianti legislativi: il Digital Services Act (Dsa) – che dopo vent’anni riscriverà le regole di tutti i giocatori della rete, a cominciare dalle piattaforme – e il Digital Markets Act (Dma), che dovrebbe tutelare consumatori e operatori digitali nel mercato interno.

I due testi hanno passato il tortuoso viaggio nelle commissioni competenti, la ratifica degli eurodeputati e ora inizia la “trilogia”, la trattativa a tre: fra il Parlamento di Bruxelles, la Commissione ed i governi dei vari paesi.

Non saranno discussioni facili – non lo sono mai state – ma non è un mistero che l’ormai imminente presidenza francese vuole arrivare al traguardo entro i primi mesi del suo mandato. Un successo che vorrebbe spendersi alle prossime elezioni d’Oltralpe.

Nessuno può dire oggi come si concluderanno questi negoziati, tutti, da sempre, rigorosamente a porte chiuse, ma i documenti approvati, per ultimo dalla commissione “mercato interno” pochi giorni fa, non potranno essere stravolti di molto.

Questi due giganteschi impianti normativi saranno un po’ le madri di tutte le leggi digitali. E sono il frutto di compromessi anche strani e inaspettati.

Il Digital Service Act, per esempio: la prima e ormai lontanissima stesura ha rischiato di essere drammaticamente peggiorata nelle discussioni del Parlamento quando invece, in genere, avviene il contrario e nelle aule di Bruxelles i testi vengono migliorati. Un aneddoto che può far capire quanto pesante sia stato l’intervento delle lobby.

Una serie sterminata di norme, dunque – salutata con improbabili dichiarazioni “anti monopoliste” da parte di tutti, compresi esponenti della destra conservatrice e liberista – difficili, impossibili da sintetizzare in poche righe.

Ci sarà tempo e modo. Non mancheranno le occasioni per capire se la ancor vaga interoperabilità proposta – gli hardware e i software dovrebbero poter interagire con tutte le piattaforme – si estenderà davvero anche ai social. Con la possibilità degli utenti di uscire dal giardino recintato di Facebook senza perdere i propri contatti, le proprie “amicizie”. Facendo saltare così il core business di Zuckerberg, la logica dell’“ambiente chiuso”. Quegli stessi ambienti, come ha raccontato l’ex dipendente di Facebook Frances Haugen proprio davanti all’Europarlamento, che incoraggiano gli abusi perché si trasformano in profitti.

Così come si vedrà se e come verrà raccolta l’indicazione, a difesa della libertà di espressione, che proibisce qualsiasi “filtro preventivo” nella messaggistica e sui social. E sarà anche da vedere come questa scelta potrà coordinarsi con la legge sul copyright dell’anno scorso – che sta per diventare operativa nei paesi europei – dove invece è prevista la possibilità di usare gli “upload filters”.

Ci sarà tempo – nel Dma – per capire cosa intende l’Europa per “gatekeeper”, i grandi operatori del settore. Per ora le regole che imporrebbero nuove norme vincolanti per la concorrenza – per dire: Amazon non potrà favorire nessun negozio “virtuale” a scapito degli altri, i telefonini non potranno “proporre” applicazioni preinstallate – dovrebbero essere imposte ai colossi con un fatturato annuo di almeno 6,5 miliardi di euro negli ultimi tre anni e una capitalizzazione di mercato di 65 miliardi di euro nell’ultimo esercizio. Tetto, guarda caso, che sembra fatto apposta perché le norme si applichino ai gruppi americani. Rimarrebbe fuori, per dirne una, booking.com, il gigante delle prenotazioni alberghiere, olandese.

Si potrebbe continuare all’infinito. Ma resta una sensazione sulla filosofia di fondo che traspare da tutte queste nuove norme.

L’esempio perfetto viene dall’articolo 5 del Digital Markets Act. Se lo si legge, sembra davvero di essere a un passo da un mondo nuovo. Gli “eccessi tossici” di Facebook sarebbero stroncati: dovrebbe rendere conto di come modera i dibattiti nelle sue pagine, dovrebbe pubblicare quanto fa a difesa delle minoranze, dovrebbe far sapere – in un report annuale – quante persone sono impegnate nella moderazione dei linguaggi. Facebook e tutti gli altri dovrebbero render chiari quali policy seguono per ostacolare le fake news.

Di più, con quell’articolo – sempre il 5 – la regina dei social non potrebbe più mettere assieme i dati di Instagram e WhatsApp, non potrebbe collegarli ai dati di altre società. Sarebbe proibita qualsiasi “profilazione”.

Sarebbe la fine del suo impero. Il problema è che il “tutto vietato” potrebbe trasformarsi nel suo contrario, potrebbe diventare “tutto permesso”: col “consenso” individuale.

Certo, Zuckeberg o chi per lui avrà qualche difficoltà in più: non potrà più bluffare con quei banner che ti chiedono, una volta per tutte: “Accetti?, dì sì se vuoi proseguire”. Se lo fa andrà incontro a pesantissime multe e stavolta – anche questo prevede il DMA – se ne occuperà direttamente Bruxelles e non il tribunale delle nebbie a Dublino, come avvenuto finora. Ma la domanda – anche se dovrà essere presentata in “modo chiaro” agli utenti – resterà: “Accetti?”.

Se si presta il consenso infatti Facebook, Google, Microsoft, Amazon & Co. potranno continuare a fare quel che hanno sempre fatto. Profilarti, seguirti, monitorarti ovunque. Come hanno sempre fatto anche aggirando le norme del Gdpr, il vecchio regolamento per la protezione dei dati.

E l’utente, le persone, resteranno sole davanti alle BigTech. Perché la stragrande maggioranza di noi non potrà permettersi di rifiutare il consenso: quei servizi on line gli servono, il risultato dei “no” sarebbe devastante, si può perdere tempo con il lavoro, il dover rispondere continuamente a banner sui propri dati può essere stancante. Frustrante.

No, non è il “consenso” la strada per limitare lo strapotere delle Big Tech. Avrebbero dovuto pensarci il Dsa ed il Dma, si sarebbe dovuto invertire – come suggerivano e continuano a suggerire tutte le associazioni per i diritti digitali – il punto di partenza: è vietata qualsiasi raccolta dati a fini di profilamento.

Le poche eccezioni possibili andrebbero segnalate e solo in quei casi si potrebbe dare il consenso. Invece, l’Europa ha scelto di non intaccare davvero la logica, il modello di business dei colossi. E ha scaricato sulle persone la responsabilità della difesa dalla sorveglianza. Sui singoli. Sugli individui.

Qualcuno potrebbe addirittura tentare un parallelo con ciò che si sta facendo per contrastare la pandemia. Qualcuno. In ogni caso, pur con qualche luce, resta un’abdicazione della politica.