È una «festa di serie B», come riconobbe lamentandosi proprio Giorgia Meloni quando la «giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera» fu istituita per legge nel 2012. Sull’onda delle celebrazioni, l’anno prima, per il 150esimo del 17 marzo 1861 – data della proclamazione del Regno d’Italia a Torino – ma già in piena austerità da governo Monti. Per cui fatta la festa, si precisò subito che non sarebbe stata festa vera: niente vacanza come il 1 gennaio, il 25 aprile, il 1 maggio e per le ricorrenze cattoliche più importanti.

Un’ingiustizia, secondo la destra, che ben volentieri scalzerebbe il 25 aprile dal posto d’onore, per fare spazio a un’altra data. Pazienza se il 17 marzo in realtà non ci fu alcuna unione d’Italia, a meno che Meloni oggi non voglia spiegarci che la Nazione può fare a meno di Veneto, Lazio, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, che nel 1861 ancora non entrarono nel Regno.

Dettagli. Tanto è forte la voglia di sostituire i partigiani con i mazziniani (silenzio sui garibaldini che suscitano equivoci) che Fratelli d’Italia ha deciso di passare ai fatti. E così proprio ieri ecco quel Donzelli lì accompagnarsi con i capigruppo del partito meloniano e con il capo della formazione giovanile (la Gioventù nazionale recentemente vista all’opera davanti alla scuola di Firenze) per presentare un disegno di legge.

Vabbè, ci sarebbero altre cose di cui occuparsi, ma intanto che il 17 marzo diventi presto una festa di serie A. Perché, dice Donzelli che se ne intende, «è la data che può permetterci di sentirci rappresentati come figli di questa Nazione, è la data fondante dei nostri valori comuni, che unifica tutti». Sottinteso chiarissimo: non come il 25 aprile che unificante non è. Certamente non per loro.

Teniamoci il dubbio sui « valori fondanti» che Donzelli trova nella continuità tra il Regno sabaudo di Sardegna e quello, ancora mutilato, nato il 17 marzo 1861.

Per il presidente Mattarella, che in mattinata ha deposto una corona al Milite ignoto accompagnato dalla presidente del Consiglio, dal presidente del senato e dal vicepresidente della camera Rampelli (che su Fb scrive «ci siamo guardati con la coda dell’occhio, io Giorgia e Ignazio e ci siamo sentiti attraversare da un brivido d’orgoglio») i valori da festeggiare sono solo quelli della Costituzione, infilata un po’ a forza in una data che non c’entra niente con la legge del 2012.

Per Giorgia Meloni, invece, l’importante è rifarsi a Goffredo Mameli (paroliere di riferimento fin dal nome del partito), «visionario e ribelle», stanco di «vedere gli italiani “calpesti e derisi” e “divisi”».

Morale, anche per lei «il 17 marzo è la solennità nazionale più unificante che abbiamo», pazienza che ricordi un regno e non la Repubblica per fare la quale c’è voluto il 25 aprile. Ma Repubblica nella retorica meloniana non c’è. C’è solo Nazione, con tanto di citazione di Ernest Renan. Tradizionale, ma contestata dal segretario di Sinistra italiana Fratoianni: «Doveva proprio ricordare il teorico della razza ariana e del razzismo?».