Non succede tutti i giorni di trovare un leader dell’opposizione che se la prende con un partito di maggioranza accusandolo di non sostenere con abbastanza convinzione il governo. Capita invece proprio che Carlo Calenda, uscendo dall’incontro con Giorgia Meloni, bacchetti Fi: «Se invece di sabotare Meloni contribuisse a fare la manovra e se l’opposizione invece di andare in piazza presentasse provvedimenti migliorativi forse l’Italia sarebbe normale». Gli azzurri capiscono l’antifona e si imbufaliscono. «Non accettiamo lezioni da chi ha perso le elezioni ed è destinato all’irrilevanza politica», sibila la capogruppo Licia Ronzulli ma il segnale è forte e chiaro.

Non che ci fosse bisogno di arrivare a tanto. Il senso dell’incontro era già stato indicato da quell’ora e mezzo abbondante di colloquio a palazzo Chigi, Calenda scortato da Marattin, Richetti il vice e Paita, l’ospite attorniata da Giorgetti, Urso e l’immancabile Fazzolari. Lo chiarisce definitivamente nei dettagli il sorrisone del centrista, che all’uscita largheggia in complimenti: «Questo governo ha tenuto una linea molto draghiana e su molte cose abbiamo trovato un’apertura». Calenda si era presentato squadernando la sua contromanovra. La premier ha socchiuso spiragli, almeno a parole, sulla sostituzione dell’odiato reddito di cittadinanza col reddito di inclusione, sull’estensione di Impresa 4.0 anche a beni ambientali ed energetici, sulla chimera del Price cap italiano su petrolio e gas.

Ad Arcore il nervosismo, già alto, s’impenna dopo le parole di Calenda. Il quale certo assicura che «non è stata avanzata alcuna richiesta di fare da stampella al governo e comunque non la avremmo accettata» ma le parole possono meno del pallottoliere: su molti punti la disponibilità al dialogo e probabilmente anche a qualche voto del Terzo Polo sottrae a Fi parecchio peso specifico. L’ipotesi di un cambio di maggioranza, oppure di un suo allargamento ai centristi, invece non c’è: non subito né in futuro. Non converrebbe a nessuna delle due parti , toglierebbe anzi valore politico a una manovra che, soprattutto in prospettiva, ha senso proprio perché il ponte è tra maggioranza e parte dell’opposizione.

È probabile che i centristi abbiano anche obiettivi più tangibili e a stretto giro: in particolare quella presidenza della commissione di vigilanza Rai che Maria Elena Boschi reclama per sé e che il Pd ha invece destinato al 5S Ricciardi. Ma leggere la manovra d’avvicinamento al governo dei centristi solo in termini di poltrone sarebbe riduttivo e soprattutto miope: l’obiettivo è ambizioso, passa per lo spingere il Pd, almeno sino a quando non si «calendarizzerà», in un ghetto con i 5S e mira a scrivere insieme alla maggioranza di destra le regole della riforma istituzionale, diventandone così artefici. Se non padri almeno zii.

Anche la presidente gioca su due tavoli: ha bisogno che almeno una parte dell’opposizione la legittimi, soprattutto sul fronte delicato della riforma presidenzialista, ma deve anche trovare modo di tenere a bada Fi, che mitraglia emendamenti su emendamenti. Ieri, dopo l’idillio con Calenda, la premier ha convocato un vertice di maggioranza ed è stata drastica: non è pensabile perdere tempo in una guerriglia interna combattuta con valanghe di emendamenti. La manovra, bollinata e firmata dal presidente ieri, è arrivata a 174 articoli senza modifiche sostanziali. Confermati l’aumento a 60 euro del tetto sotto il quale si può usare il contante e sino a 10mila euro per l’uso dei voucher. Stanziati anche 2,2 miliardi complessivi, di qui al 2032 per il completamento della linea C della metro di Roma. Qualche fondo da parte per garantire la copertura delle modifiche che introdurrà il Parlamento c’è, circa 400 milioni, ma oltre quel confine non ci si può spingere.

La Lega è più che conciliante: «Le nostre priorità sono ampiamente soddisfatte. Cercheremo di portare qualche miglioria ma niente di stravolgente, il testo già risponde alle nostre aspettative», promette il capo dei deputati Molinari. Forza Italia è più battagliera, anche se sulla sforbiciata agli emendamenti farà come Giorgia comanda. «Non tanti ma di ottima qualità», annuncia Ronzulli. Anche piuttosto costosi, per le tasche vuote di Giorgetti: 400 milioni da spalmare su tutte le modifiche parlamentari non bastano a coprire i cavalli di battaglia azzurri, gli aumenti della decontribuzione per i neo assunti giovani e per le pensioni minime. L’asse con Calenda serve un po’ anche a questo: a tenere a bada gli ardenti spiriti del Cavaliere.