Non cade foglia che le opposizioni non invochino il pensiero di Giorgia Meloni. «Dica qualcosa!», le intimano. Ma perché? Sta in questa continua richiesta alla premier di manifestarsi il compito di chi vorrebbe sostituirla?

Per Pd, M5S, sinistra, verdi, e talvolta persino i centristi, sembra proprio di sì. E su questa continua richiesta di favella a Meloni sono unite come una falange macedone. Che si tratti del deputato pistolero di Biella o del nuovo Patto di stabilità, dei camerati riuniti a via Acca Larentia o della guerra in Medio Oriente, i fieri oppositori hanno un pensiero fisso: «Ma Giorgia cosa pensa?»

In questo continuo invocare la premier non c’è una solo una pericolosa subalternità, l’idea cioè che fare opposizione consista in un continuo controcanto, in un lamento che vede sempre al centro di ogni discorso la figura della premier e che dovrebbe- così pensano- indignare e mobilitare le masse. C’è un racconto dell’Italia assai più Meloni-centrico di quanto non accada nel paese reale, tra le persone comuni che non hanno il chiodo fisso dell’inquilina di Palazzo Chigi.

Ma c’è di più: nelle continue invocazioni, c’è il desiderio che la premier dica cose di buonsenso, di centro, almeno un po’ moderate. Le si chiede di prendere le distanze da deputati e dirigenti che sognano Mussolini e vanno in giro armati dimenticando che quella dei Delmastro e soci è la classe dirigente che è cresciuta insieme e attorno a lei. Le si chiede di dire parole chiare sull’antifascismo quando è ormai chiaro che la leader di Fdi non ha alcuna intenzione di farlo.

Dimenticando che la sua natura estremista sarebbe persino un vantaggio per chi si pone l’obiettivo di sostituirla al più presto. E invece no. Nelle opposizioni, soprattutto nel Pd, prevale la “sindrome del precettore”, che sente l’incomprimibile dovere di correggere l’alunna un po’ somara sui fondamentali della Costituzione: «No, Giorgia, così non va bene, facciamo brutta figura, un premier che si appresta a guidare il G7 non può avere seguaci col saluto romano».

Una volta, forse, questo atteggiamento “bon ton” poteva essere contemplato, quando negli Usa bastava una scappatella per fare secco, politicamente, un candidato alla presidenza. Ora, con Trump che incombe un’altra volta insieme alle sue truppe con lo Sciamano, anche questo riflesso d’ordine del «facciamo brutta figura con i partner internazionale» avrebbe potuto essere archiviato dai dem italiani. La destra è quella che è, su entrambe le sponde dell’Atlantico, e non c’è alcun bisogno di una sinistra benpensante che provi a pettinarla, a renderla più istituzionale e europeista.

Semmai ci sarebbe bisogno di una sinistra che offra ricette completamente diverse ai segmenti più fragili della società, una possibile soluzione ai loro problemi diversa dal nazionalismo e dall’autoritarismo. Se persino Prodi, padre della Terza via con Blair e Clinton, a dicembre a un evento Pd ha detto che «ora serve non dico la rivoluzione, ma qualcosa di radicale, di forte, per ridurre le diseguaglianze inaccettabili», forse è su questo che i cosiddetti progressisti dovrebbero interrogarsi ed esternare. Schlein ha vinto le primarie del febbraio 2023 accennando questa nuova linea più di sinistra.

Nell’attesa che si manifesti in modo più chiaro, abbandonando almeno qualche giorno Meloni al suo destino, si possono ricordare i danni provocati a sinistra dall’ossessione per Berlusconi dal 1994 in poi. In quel caso la subalternità fu pressoché totale (con l’eccezione dei governi Prodi): mentre in Italia il precariato dilagava e la distanze tra gli stipendi degli operai e quelli dei manager crescevano esponenzialmente, le sinistre pensavano solo a lui, agli scandali e alle leggi ad personam. Qualche ragione, almeno all’inizio, c’era: il Cavaliere è stato un fenomeno nuovo nell’Occidente, col suo colossale conflitto d’interessi e l’impero mediatico al servizio di un partito personale. Meloni, con tutto il rispetto, è una furba politicante di tipo tradizionale. Non c’è alcuna ragione di restarne ipnotizzati.