Ambitissimo il Natale tra le truppe in Iraq: le passeggiate tra le uniformi piace, a Washington come a Roma. La presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni tra Erbil e Baghdad è andata ieri con l’immancabile mimetica che fa tanto militarismo machista.

E lo fa in un territorio che di quel militarismo è vittima da almeno tre decenni, dalla prima guerra del Golfo del 1991, atto che aprì a una ridefinizione ufficiosa dei confini mediorientali e un’accensione dei settarismi etnici e religiosi che ancora oggi pesano come un macigno sulle popolazioni locali.

Senza Saddam l’Iraq è luogo conteso. Lo è da anni per le compagnie petrolifere internazionali che si spartiscono il mercato, soprattutto il ricchissimo sud a maggioranza sciita, dove gli impianti di estrazione e raffinazione sono gestiti da aziende straniere mentre città come Bassora – che camminano letteralmente sopra miliardi di barili di greggio – soffrono blackout quotidiani, estati soffocanti per mancanza d’energia e una disoccupazione strutturale perché quelle aziende non assumono iracheni.

L’ENERGIA è uno dei cuori del viaggio meloniano in terra mesopotamica. Lo ha sottolineato la prima ministra, lo ha ribadito il premier iracheno Mohammed al-Sudani nella conferenza stampa congiunta e l’ha rilanciato con enfasi la stampa irachena che ieri apriva con la voglia condivisa di incrementare i rapporti.

«Esprimiamo la nostra disponibilità a sviluppare cooperazione economica in tutti i campi, in particolare agricoltura, acqua e salute», ha detto al-Sudani prima di invitare nel paese «le compagnie italiane specializzate in infrastrutture ma anche nello sfruttamento del gas». Con i primi tre punti al-Sudani ha dato conto – seppur con superficialità – delle emergenze nazionali.

L’IRAQ SUBISCE gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici, con un tasso di desertificazione che svuota le campagne; i due fiumi simbolo dello sviluppo della civiltà – Tigri ed Eufrate – a secco anche a causa delle predatorie politiche turche alla sorgente; e una sanità, all’avanguardia negli anni ’70 e ’80, oggi al collasso a fronte di uno dei tassi di corruzione politica più colossali del mondo.

È contro l’ingiustizia sociale che ne deriva (due terzi degli iracheni vivono sotto la soglia di povertà) che nel 2019 e 2020 milioni di persone hanno protestato in tutto il paese, al costo di oltre 600 manifestanti uccisi. Ma quell’Iraq, laico e anti-settario, non ha trovato posto nel discorso meloniano.

Che al contrario ha lodato lo sforzo verso «la democrazia» dimostrato da Baghdad «con la recente formazione del governo». Un esecutivo debolissimo nato appena due mesi fa, un anno dopo elezioni boicottate dalla maggioranza degli iracheni, partecipate da partiti confessionali prima che politici.

UN PAESE instabile (checché ne dica Meloni: «Ha compiuto importanti passi avanti sul piano della sicurezza e della stabilità politica»), in mano a uno Stato fallito, preda di interessi esterni.

L’esaltazione dell’esercito italiano ne è specchio: arrivato con l’invasione Usa di un paese sovrano e rimasto per la lotta all’Isis, è oggi narrato dalla prima ministra come simbolo di «cooperazione e sviluppo. Il motivo per cui siamo benvoluti e non andiamo in giro a fare attività predatorie».