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Meloni e il caos in Libia: allo sbando, altro che «piano Mattei»

Il Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdel Hamid al-Dabaiba e l'amministrato delegato dell'Eni Claudio DescalziIl Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdel Hamid al-Dabaiba e l'amministrato delegato dell'Eni Claudio Descalzi

Commenti L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 agosto 2023

Altro che piano Mattei per l’Africa. L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio. La prima fu quando nel 2011 venne abbattuto – con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare – il regime di Gheddafi che solo mesi prima accoglievamo a Roma come un trionfatore.

La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano – sempre interessato al controllo dei migranti – , fu abbandonato al suo destino già incerto, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu “salvato” dall’intervento militare della Turchia di Erdogan.

La terza volta sta succedendo in questi giorni in maniera forse meno eclatante ma sicuramente alquanto ignorata: a cavallo di ferragosto due potenti fazioni di Tripoli si sono affrontate con circa una sessantina di morti. Una lotta intestina, con la partecipazione importante dei salafiti, che fa apparire assai fragile il governo di Daibaba con cui Meloni e company stringono accordi labili che contrabbandano agli italiani come pietre miliari dell’agire del governo. La realtà è ben diversa. Pur essendo l’Italia presente sul territorio libico con la sua intelligence, ben poco può fare – soprattutto da sola – con gli attori protagonisti della vicenda. In primo luogo la Turchia che in Tripolitania vuole dare ulteriore consistenza ai suoi disegni di potenza neo-ottomana e mediterranea e si propone persino di dare vita a un esercito libico unificato. I suoi piani si scontrano – ma in qualche caso anche si incontrano – con quelli della Russia, che oltre alla presenza della Wagner in Cirenaica, è disposta a negoziare con Ankara e con il Cairo.

Putin si prepara a incontrare Erdogan per la questione Ucraina e del grano mentre lo stesso reiss turco sta lavorando da mesi a un meeting con il generale-presidente egiziano Al Sisi. I due sono stati divisi dagli sviluppi delle primavere arabe del 2011 quando nel 2013 Al Sisi con il suo colpo di stato fece fuori sanguinosamente i Fratelli Musulmani sostenuti dalla Turchia. In questo quadro libico politico- diplomatico che vede anche la riunione dei Paesi Brics – sempre più lanciati a sganciarsi da quella che considerano come egemonia occidentale e del dollaro – l’Italia e l’Europa non toccano palla. E come loro gli Usa e l’Onu. Visto che proprio ieri il capo del Consiglio presidenziale, Mohammed Menfi, il presidente della Camera dei rappresentanti, Aqila Saleh, e il generale dell’Est Khalifa Haftar hanno annunciato che non parteciperanno a nessun comitato legato alla situazione politica, ad eccezione di quelli aderenti al quadro nazionale interno; un chiaro rifiuto di partecipare a un dialogo che potrebbe essere proposto dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil). Sono circa due anni che l’Onu e gli europei tentato invano di fare andare i libici alle urne.

Insomma uno schiaffo al Palazzo di Vetro e alla comunità internazionale “occidentale” che vengono giudicati sia a Ovest in Tripolitania che a Est in Cirenaica come degli intrusi. Cosa significa tutto questo? Non che la Russia, la Turchia o l’Egitto abbiano in Africa tutto questo successo. Anche loro devono avere a che fare con i sommovimenti di un continente dove sono in atto guerre, come in Sudan, rivolte jihadiste (Mali, Burkina), golpe e crisi economiche spaventose, dalla Tunisia al Sahel. Significa però che qui degli interventi occidentali non ne vogliono più sapere.

Si è visto recentemente in Niger dove alcune migliaia di soldati occidentali sono accucciati all’aereoporto di Niamey, consapevoli che c’è il rischio che alzando un dito potrebbe finire come a Kabul nel 2021.

Del resto come dare torto agli africani e ai leader della regione tra Medio Oriente e Nordafrica che hanno subito per vent’anni i disastri provocati dagli occidentali, dall’ Afghanistan all’Iraq alla Libia. Con i risultati che sappiamo tutti e una consapevolezza comune nel Sud del mondo: che gli Usa con il loro corteo di docili alleati lavorano più per la destabilizzazione che per la stabilità. Una stabilità che non ci può né ci deve piacere perché fatta di autocrati, democrazie calpestate e repressione: ma allo stesso tempo dovremmo anche smettere di volere imporre agli altri dei modelli al prezzo pesantissimo di morti, carestie e tanti, tanti profughi.

I risultati sono stati in questi anni peggiori dei mali che volevamo combattere. Un interlocutore di Tripoli è esplicito: «Voi europei siete arenati in una visione assai distante da questi territori». Vorrei replicare, come ho fatto, che questo non accade da oggi ma che è un a tendenza in atto da molti anni, il frutto avvelenato di una propaganda e di una narrativa distorta che voleva fare dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Libia dei modelli poi respinti dalla realtà dei fatti e dal sentire dei popoli. Ma qui, come si usa dire, non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire.

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