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Meloni alza la voce, ma la manovra diventa sempre più una via crucis

Meloni alza la voce, ma la manovra diventa sempre più una via crucis

Legge di bilancio La spina nel fianco viene dall’Europa e quando parla di quel guaio, della riforma del patto di stabilità, la presidente perde l’aplomb.

Pubblicato circa un anno faEdizione del 31 agosto 2023

«Non ho coinvolto gli alleati perché quando si interviene su queste materie bisogna farlo e basta»: per Giorgia Meloni il premierato è cosa già fatta. L’alleato a cui allude non è infatti solo il leader di un partito della maggioranza ma il suo vicepremier e la sentenza lapidaria affidata all’intervista pubblicata ieri dal Sole-24 Ore esprime nel dettaglio quanto la sua visione del ruolo del premier differisca da quella abituale del primus inter pares. Il capo decide, se del caso, avverte la squadra delle sue decisioni. Quando lo ritiene opportuno.

La decisione in questione è la tassa sugli extraprofitti delle banche che Tajani mira a svuotare in fase di conversione del decreto. La presidente invece fa muro: «Non intendo difendere le rendite di posizione». Pollice verso anche per un altro vessillo azzurro, la proposta di fare cassa con privatizzazioni robuste, a partire dai porti: «Il tema non è all’ordine del giorno», cestina senza esitazioni la super-presidente. Il messaggio è rivolto in realtà anche a Salvini: la sua lunga lista di desiderata è esosa ma sbatte sulla scelta austera di palazzo Chigi e del Mef. Tutto è ancora da decidersi però è già chiaro che i due vicepremier dovranno accontentarsi di qualche stanziamento di consolazione.

Un lieve aumento delle pensioni minime e qualche privatizzazione ben lontana dagli asset portanti per l’azzurro. Forse un mini-intervento sulle accise per il leghista. Ma di smantellamento della Fornero e di Flat Tax è probabile che non se ne parli e quanto a fondi per i Lep, essenziali perché il miraggio dell’autonomia differenziata prenda corpo, nella manovra non dovrebbe esserci neppure un euro. In compenso è probabile che per la Sanità qualcosa spunti, pur molto lontano dai 4 miliardi richiesti dal ministero. Nelle risse da pollaio di queste settimane né la Lega né Forza Italia ne hanno quasi mai parlato ma il governo deve essersi reso conto lo stesso che ignorare il settore più nevralgico che ci sia per decine di milioni di italiani non sarebbe una scelta presa bene.

Nel complesso la premier, che come è noto preferisce esprimersi per monologhi o tutt’alpiù interviste evitando i rischi delle conferenze stampa, appare sicura di tenere sotto pieno controllo sia un governo in cui l’ultima parola spetta sempre a lei che alleati rumorosi ma non pericolosi. La spina nel fianco non viene dai borbottii dei partiti o dalle bizze di vicepremier spogliati di potere. Viene dall’Europa e solo quando parla di quel guaio, della riforma del patto di stabilità, la presidente perde l’aplomb.

«Se l’Europa non fosse miope dovrebbe capire che non puoi chiedere ai vari Paesi di puntare sugli investimenti e poi non riconoscerne il valore. Dov’è la coerenza? Come si fa a non considerare nel patto di stabilità gli investimenti nella transizione ecologica, nella difesa, nei progetti che ci siamo dati?», sbotta infatti. È la carta su cui punta il governo, sottrarre dal conto del rapporto deficit/Pil le spese per gli investimenti strategici. Ma Giorgia e Giorgetti non sono i primi a pensarci.

L’ipotesi è stata avanzata infinite volte e sempre respinta con perdite. Nulla autorizza a pensare che stavolta le cose possano andare diversamente. La strategia illustrata da Meloni per scalare la montagna è altrettanto ovvia: lavorare di concerto prima di tutto con i Paesi in situazione simile a quella italiana, Spagna e Francia, ma anche con i Paesi dell’Est e con l’ostica Germania: «L’idea che si debba parlare solo con gli amici non è la mia. Parlo con tutti».

Fatta salva la richiesta di scorporare dal conto alcune maxispese, il cui successo è quanto meno improbabile, non è però chiaro l’obiettivo intorno al quale l’Italia spera di sedimentare un asse europeo. È significativo che presso l’eurogruppo leghista si stia facendo strada la tentazione di puntare, al contrario di quanto sbandierato dal governo, sul fallimento della riforma. Certo si tornerebbe ai vecchi parametri, però «quelli non li ha mai rispettati nessuno». Non è la strategia che intende seguire il governo. Il problema è che quale invece sia questa strategia non si vede mentre il tempo stringe e la manovra diventa sempre di più una via crucis.

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