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Meloni all’assalto dell’Europa: «Il voto come un referendum»

Giorgia Meloni durante il suo comizio in piazza del Popolo a Roma foto LaPresseGiorgia Meloni durante il suo comizio in piazza del Popolo a Roma – foto LaPresse

Verso le elezioni La premier scende in piazza del Popolo. E disegna un’Unione guidata dalle destre. Sfida diretta a Schlein: «Dica chiaramente se pensa che non sono democratica»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

Per FdI erano 30mila, secondo la questura 10mila in meno. Piazza del Popolo, non la più capiente che si trovi nella Capitale, comunque era piena. Morale molto alto, bandiere al vento, tutto lo stato maggiore schierato, aspettative alle stelle. Sul palco una leader che ha imparato la politica per strada e in sezione, capacissima quindi di tenere la piazza. Giorgia Meloni chiude la campagna elettorale appellandosi, in un’ora buona di discorso, all’identità della sua gente, contrapposta in tutto e per tutto a quella esecrata della sinistra: «Promettetemi che non diventerete come loro. Grazie per esserci con il vostro allegro entusiasmo, il vostro ottimismo, il vostro amore». E’ la differenza «tra noi e la rabbia, la cattiveria dei nostri avversari più livorosi».

QUI L’EREDITÀ che la leader della destra raccoglie è quella di Silvio Berlusconi. Non smette mai di sorridere. Quando la folla scandisce ritmando «Gior-gia! Gior-gia!», balla sul palco. Esalta l’amore contrapposto al livore. È il materiale con cui Silvio buonanima aveva costruito un impero politico. Meloni lo ha capito: distribuisce coltellate, non risparmia attacchi feroci ma sta attenta a non scadere negli strilli sguiati di Madrid, Yo soy Giorgia!

Il discorso è repertorio: il Pd che si chiama democratico ma s’imbizzarrisce per la democratica elezione diretta. La missione di cui il destino la ha incaricata, cambiare il Paese e lasciarlo migliorato invece di scaldare la pur comoda poltrona. L’Italia che finalmente «non è più comprimaria ma protagonista». Il guizzo arriva quando la premier se la prende con il candidato socialista alla presidenza della Commissione europea, «tale signor Schmit»: «Dice che i Conservatori sono una forza non democratica. Io, dunque, sarei una leader non democratica. Elly, condividi queste parole? Non scappare e rispondi. Perché se io sono un dittatore cosa si fa, la lotta armata per depormi? Dichiarazioni irresponsabili di chi per mezzo voto scherza col fuoco». Non è solo retorica da comizio. Chiamandola in causa per nome, la premier sfida la rivale ma al tempo stesso la promuove a unica controparte. Le europee sono una partita a due: non due partiti ma due leader, due donne. Intorno solo comprimari e comparse.

Il secondo guizzo, l’affondo, è proprio sulle donne: «Raccontano che con la prima donna premier ci sarebbe una restrizione di libertà per le donne. Ma noi non abbiamo toccato né intendiamo toccare la 194 sull’aborto. Vogliamo applicarla tutta, anche nella parte sulla prevenzione. Perché è vera libertà solo se puoi anche scegliere di non abortire». È repertorio politico anche questo, ma poi la premier scarta: «Restano in silenzio se una donna viene insultata da un uomo ma si scandalizzano se si difende. Noi non la diamo vinta a bulli e gradassi: io sono una donna e ho il diritto e sono capace di difendermi».

LA CAMPAGNA elettorale di Giorgia Meloni è tutta qui e del resto l’esibizione si era aperta proprio riproponendo il video dell’incontro con De Luca. Poco importa se il gesto fosse studiato, come è probabile, o se le sia venuto spontaneo: quello su cui la premier chiama gli elettori a pronunciarsi è sull’immagine della donna che, senza essere femminista, familista e tradizionalista anzi, sa però difendersi da sola e lo fa. Il resto, in una politica egemonizzata dall’immagine, dominata dall’impulso emotivo del momento, conterà ben poco. Nessuno tra i potenziali elettori noterà che la premier ha glissato su tutte le questioni spinose. Sull’Ucraina sfotte gli avversari, che divisi come sono se governassero finirebbero per «farsi la guerra da soli», ma sorvola sul fatto che nello stesso momento Salvini il Pacifista apre il suo comizio a Milano con la colomba di Blowin’ in the Wind. Non si sofferma su quel patto di stabilità che l’Italia «protagonista» ha ingoiato e che minaccia di strozzarla. Sull’Europa in compenso la leader dei Conservatori è chiara. Si diffonde sul tema nella seconda metà del discorso. Enumera una per una le differenze d’impostazione tra l’Europa che c’è e quella che sogna lei: un’Europa ridotta al minimo, con sola funzione di supporto alle Nazioni, che devono tornare a essere protagoniste assolute.

QUELLA È «la parte giusta della Storia». Le elezioni, dice, «saranno un referendum sull’Europa, su quale Europa». In quel referendum, il 9 giugno e nei prossimi anni, lei e la destra radicale di Le Pen e Salvini marceranno divisi perché sono davvero divisi. Ma se ci sarà da colpire, colpiranno uniti.

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