Dovrebbero essere esattamente le 15 ora locale, le 21 in Italia, quando Giorgia Meloni metterà per la prima volta piede nello studio ovale per il faccia a faccia con il presidente Biden, che proseguirà poi allargato alle rispettive delegazioni. In mattinata la premier italiana incontrerà i leader dei gruppi del Senato e della Camera e prima di recarsi alla Casa bianca risponderà alle domande dei giornalisti in coppia con lo speaker della Camera, Kevin McCarthy.

LA COREOGRAFIA, inclusa la visita di domani al cimitero militare di Arlington e l’omaggio alla tomba del milite ignoto, è d’obbligo. Le incognite riguardano solo l’incontro chiave con Joe Biden. Washington per i premier italiani è sempre la tappa più importante, spesso anche difficile. Giorgia Meloni però non ha di che preoccuparsi: sarà ricevuta con tutti gli onori e con la massima cordialità. Un anno fa per la Casa bianca era un’illustre sconosciuta e quel poco che se ne sapeva destava perplessità e sospetti. Oggi è la beniamina del presidente a stelle e strisce, la leader del governo più allineato con gli Usa tra i Paesi occidentali della Ue. Merito della sterzata filoatlantista della leader sovranista, andata oltre le più ottimistiche attese di Washington.

NELLO STUDIO ovale si parlerà certo molto di Russia e Ucraina e l’esito non riserverà nessunissima sorpresa ma si parlerà soprattutto di Cina e anche un po’ d’Africa. Anzi, negli auspici della ex underdog di Africa si dovrebbe parlare molto. Ma sul piatto forte non ci sono dubbi: sarà la Cina e il presidente americano non chiederà solo una conferma, più precisa e dettagliata, della decisione italiana di denunciare il memorandum firmato nel 2019 da governo Conte 1 con Pechino, altrimenti detto la via della Seta. Biden insisterà perché l’Italia non rinunci solo agli investimenti cinesi in Italia ma anche per bloccare la strada in senso inverso, quello degli investimenti italiani.

LA PARTNER italiana, oltre a chiedere tempi non ultimativi per arretrare dagli accordi, segnalerà anche con urgenza la necessità di trovare protezione dalle rappresaglie economiche cinesi che di fatto sono già state minacciate nell’articolo-monito del Global Times di due giorni fa. Quello nel quale, oltre a dire chiaramente che «sulla via della Seta Meloni deve decidere senza subire l’influenza di Biden», si specificava che «se l’Italia decide di ritirarsi ci sono tutte le ragioni per essere preoccupati del potenziale impatto negativo». Insomma, denuncia del memorandum e uscita dalla via della Seta sì ma con la garanzia che l’Italia non sarà lasciata sola e quasi certamente senza annunci ufficiali subito per non guastare del tutto e troppo presto i rapporti con Pechino.

Per quanto riguarda l’Africa la strada è meno in discesa. Certo, la Casa bianca apprezza la strategia italiana, il “piano Mattei”, il tentativo di Meloni di farsi regista di un progetto di investimenti il cui obiettivo è in larga misura quello di contrastare la presenza cinese in quel continente. Ma di qui a esercitare le pressioni del caso sul Fmi perché si decida a concedere il prestito alla Tunisia senza aver prima ottenuto le riforme-capestro richieste a Saied ce ne passa. Nei lavori diplomatici che hanno preparato l’incontro, gli Usa non sono arretrati di un centimetro: «La concessione del prestito dipende da Saied», cioè dall’accettazione delle riforme draconiane chieste dal Fondo. La premier italiana però non si sarebbe ancora arresa. Nel colloquio di oggi, probabilmente, cercherà un modo per aprire almeno uno spiraglio che possa portare in tempi brevi alla salvezza della Tunisia. Solo con un risultato, anche modesto, su quel fronte Meloni tornerebbe da Washington potendo vantare un successo che innalzerebbe di molti gradini il suo ruolo nell’Unione europea. Senza contare la necessità di evitare un flusso migratorio biblico in caso di default della Tunisia.

C’È UN ULTIMO punto sul quale Biden probabilmente insisterà: il riarmo. L’Italia, come tutta l’Europa, ha già accolto sulla carta la richiesta Nato di innalzare le spese militari sino al 2% del Pil, ma senza fissare tempi precisi. Per gli Usa, però, è importante che il riarmo parta presto e proceda a passo di carica.