E’ sempre rimasto nei cataloghi editoriali ma la sua fama è venuta scemando sia fra i lettori sia fra gli studiosi, anzi Silvio Pellico, nato a Saluzzo da famiglia borghese nell’anno della Grande Rivoluzione e morto a Torino nel 1854 da bibliotecario e attaché della Marchesa di Barolo, si può dire sia da tempo appannaggio dei soli cultori di storia patria e degli specialisti di letteratura piemontese. Dunque è una notizia che venga riproposto il suo memoriale un tempo celeberrimo e oggi ridotto al titolo proverbiale, Le mie prigioni (Oscar «Classici», pp. 291, € 10,50), nell’ottima edizione a cura di Angelo Jacomuzzi che, se pure risale agli anni ottanta, utilizza comunque un testo affidabile (lo stesso stabilito da Gaetano Trombatore per la collezione Ricciardi nel ’53, mentre una edizione diplomatico-critica verrà procurata da Aldo A. Mola per Bastogi nel 2004) e soprattutto mette ordine in una forestazione bibliografica dove diluviano rime, partiture teatrali, carteggi, oltre a una cospicua messe di inediti e rari.

Chi apra oggi questo libro carico di troppi stereotipi ma oramai tutti quanti acquisibili de relato (come la frase attribuita al plenipotenziario austriaco Klemens von Metternich, secondo cui Le mie prigioni nocque all’Austria più di una battaglia perduta) potrebbe anche stupirsi di quanto l’autore dichiara nel primo dei novantanove capitoletti che lo compongono: «Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile a un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto a tenerle il broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro!». Quando Pellico pubblica il memoriale sono passati dodici anni dall’arresto, circa due dalla scarcerazione, e la sua biografia anteriore ricorda un decorso persino scontato se pensiamo che ha trascorso la prima giovinezza a Lione, assorbendo gli ideali illuministici con i primi fermenti romantici di cui saranno testimonianza a Milano prima l’amicizia con Foscolo e Monti poi il suo ruolo catalizzante all’interno del «Conciliatore», il cui risvolto sottotraccia è l’adesione alla Carboneria, quando sembra dare corpo al romanticismo patriottico che arde nei versi della sua Francesca da Rimini, messa in scena due mesi appena dopo Waterloo e già in piena Restaurazione. (Chi voglia acquisire tutta la ricchezza del contesto non ha che da recuperare le Lettere – pubblicate da Einaudi nel ’66 a cura di un giovanissimo Piero Camporesi – a firma del suo più grande amico e troppo presto perduto, l’abate Ludovico di Breme, dal pallore mortale e la chioma farouche, la cui foga romantica affascinava come è noto Stendhal).

Arrestato Pellico con altri compagni a seguito di delazione, condannato a morte e subito graziato dal sovrano austriaco con la pena commutata in quindici anni di carcere duro, egli ne sconta dieci fra Milano, Venezia e infine Brno nella lugubre fortezza dello Spielberg. Ha i ferri ai piedi, è solo in cella (in un secondo momento gli sarà accanto – di carattere esuberante e opposto al suo – il patriota romagnolo Piero Maroncelli), non può scrivere e per anni il solo libro di cui dispone è la Bibbia. Il suo comportamento è, per testimonianza unanime, di grande dignità né la carcerazione lo induce a resipiscenze o, meno che mai, a ritrattazioni. Tuttavia la politica, l’impegno militante sono per Silvio Pellico strettamente legati all’azione mentre il tempo dello Spielberg è invece il tempo di una meditazione dalle venature esplicitamente religiose. Senso della umanità, pietas, compassione per le creature sofferenti: di questo e di nient’altro dicono Le mie prigioni, la cui sequenza cronologica è infatti segnata da episodi e personaggi non edificanti (perché nelle asciutte pagine del Pellico nulla trasuda della untuosità controriformista) ma senz’altro, e alla lettera, esemplari: il bambinetto muto che gli sorride dal cortile della prigione milanese; la Zanze veneziana, così naturale nella sua tenera sensualità; il carceriere Schiller, l’uomo evangelico dagli occhi miti; e ovviamente quanti lo scrittore chiama «concaptivi», fra cui il candido Oroboni e lo stesso Maroncelli cui si lega l’episodio che un tempo illustrava i sussidiari della scuola elementare, quello della rosa donata da Piero al chirurgo che gli ha appena amputato una gamba. Se non è un diagramma politico e nemmeno un testamento risorgimentale, Le mie prigioni rivela il percorso di una ascesi e appare retrospettivamente come un vero e proprio romanzo di formazione religiosa. I suoi veri modelli sono il Libro di Giobbe e specialmente la Imitazione di Cristo laddove il carcere propone ogni giorno al prigioniero un ostacolo, un cimento, qualcosa che metta alla prova la sua fede. Non è un caso che il libro si concluda senza ambage e nel nome della Provvidenza: «Ah! delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoperare a fini degni di sé».

Va anche detto, e qui probabilmente si cela il segreto di quel che è stato a lungo un evergreen, che lo stile di Pellico non è affatto rugiadoso ma, al contrario, è affiliato nella sua nettezza agli illuministi di cui Silvio era entusiasta nella prima adolescenza lionese: è uno stile che Jacomuzzi vede scaturire integro dalla «calma distaccata e analitica del racconto». Ma il gran libro fu verosimilmente una parentesi perché, una volta tornato a Torino, Pellico presto si rinchiude in Palazzo Barolo, abbandona il progetto di una più estesa autobiografia, torna a versificare (molto mediocremente) e a scrivere testi di apologia del cattolicesimo quali I doveri degli uomini (del 1833, riedito ancora nel 2022 da Fede&Cultura).

Resta da chiedersi come mai Le mie prigioni sia stato così a lungo letto come un campione della testimonianza storico-politica. Non mancava, infatti, in certe vecchie biblioteche di sezione, magari collocato tra I miserabili e Il tallone di ferro perché l’Austria di Metternich, nel suo gelo dispotico, era letta come un antecedente della Germania di Hitler se molti di coloro che avevano subìto l’occupazione nazista solo venti anni avanti si erano battuti contro gli austriaci nelle trincee del Carso: il contesto che la pagina di Pellico mutamente evocava era perciò più forte della lettera stessa del testo. L’ultimo suo grido è del gennaio 1968, quando la Rai manda in onda (tre puntate nella prima serata della domenica) l’omonimo sceneggiato televisivo per la regia di Sandro Bolchi e l’interpretazione di Raoul Grassilli che legge il prigioniero in termini di netta introspezione, nella contenutezza dei gesti e in una pensosa perplessità che oggi diremmo esistenzialista. Ma si tratta per l’appunto di un ultimo grido, se già l’8 maggio del ’75 sul secondo canale della Radio va in onda una efferata parodia fra Le interviste impossibili (ora nel volume complessivo di Donzelli, 2006, a cura di Lorenzo Pavolini) dove il poeta Gaio Fratini «incontra» un Silvio Pellico che ha la voce dell’indimenticabile Felice Andreasi: costui si esprime volentieri in francese, spasima soltanto per la Marchesa di Barolo e Le mie prigioni non vuole sentirle neanche nominare.