Negli anni Settanta del ‘900 Charleroi, principale centro carbonifero e industriale del Belgio, era ancora luogo di approdo di tanti immigrati italiani. Il Consolato aveva il suo daffare, con 140.000 connazionali da servire, e difficilmente potrò dimenticare le esperienze umane vissute da Console tra le miniere. Capitò nel 1973 che il direttore di un ospedale psichiatrico locale mi invitasse a visitare la sua struttura, perché – questo il motivo – «ospita molti italiani».

Naturalmente vado. Nei padiglioni incontro i connazionali, molti dei quali appaiono meno “demenziali” di quanto immaginassi. Uscendo dagli stanzoni, uno di loro si aggrappa al mio braccio e balbetta più volte: «Per pietà, fammi uscire da questo inferno».

Gli chiedo il nome, mentre il direttore mi spinge nel suo ufficio. Una volta chiusa la porta, lo prego di lasciarmi dare un’occhiata alla cartella clinica del poveretto. Di fronte alla reticenza del direttore, gli preciso che a norma di legge il console è tutore dei connazionali interdetti, quindi anche dei suoi pazienti. Finalmente mi portano la cartella: sembra ben compilata e indica anche i nomi di chi a suo tempo aveva firmato la richiesta di ricovero. Ringrazio e torno in ufficio.

A quel punto mi sorge un dubbio. Mi rivolgo a uno dei nostri avvocati belgi e gli domando: «Chi ha la potestà in Belgio di far internare uno che dà di matto?».

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La sua risposta mi lascia di stucco: «Semplice, basta la firma di un medico e di un congiunto; è una norma del secolo scorso ma tuttora in vigore». Dunque – è la mia conclusione – chissà quanti sono reclusi ingiustamente per motivi inconfessabili. Erano gli anni in cui un terzetto rivoluzionario – il sudafricano David Cooper, lo scozzese Ronald Laing e Franco Basaglia in Italia – lanciava il manifesto dell’anti-psichiatria.

Non mi era difficile, tramite amici comuni, avere un appuntamento con Basaglia a casa sua. Ma prima di partire torno all’ospedale psichiatrico e chiedo di esaminare le cartelle cliniche dei pazienti italiani in apparenza meno gravi. Ne scelgo tre e le fotocopio, tra le rimostranze del direttore, e parto per Venezia. Nell’attico con scorcio incantevole sul Canal Grande mi ricevono – incuriositi e cortesi – Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro.

Appena esaminano le cartelle cliniche portate con me, la loro attenzione si acuisce. E arrivo al punto che mi premeva chiarire anzitutto a me stesso: è mai possibile che i disturbi psichici di quei pazienti siano collegati al loro status di immigrati? La loro risposta lascia pochi dubbi al mio dubbio: premesso – mi dicono – che non è serio formulare giudizi senza visitare il paziente, ci pare che almeno uno di questi tre casi presenti disturbi collegabili allo sradicamento dal villaggio d’origine. Dunque – chiedo io – sulle centinaia di immigrati italiani rinchiusi nei manicomi (allora si chiamavano così), molti guarirebbero se venissero rimpatriati..? Certo – mi conferma Basaglia – ed è questo il senso di quella che definiamo «violenza istituzionale».

Tornato a Charleroi, mi avvalgo delle sue conoscenze per tentare un primo, incerto esperimento di “liberazione”. Prendo contatto con il direttore di un ospedale italiano noto per essere “basagliano”, che accetta di ricoverare nella sua struttura il paziente di cui Basaglia stesso aveva esaminato la cartella clinica.

Superati i vari ostacoli burocratici frapposti dal direttore belga a scanso di responsabilità, un’ambulanza trasporta il paziente alla frontiera dove viene preso in carico dagli italiani. Rimarrà nell’ospedale qualche mese, prima di tornare guarito al villaggio d’origine con un’offerta di lavoro e una decente pensione belga.

Non si voleva qui raccontare una “favola bella” a lieto fine, bensì commemorare Basaglia gettando un fascio di luce sulle fragilità psichiche dei nuovi immigrati, che vivono gli stessi drammi degli emigrati italiani nel dopoguerra. Senza dimenticare i connazionali tuttora rinchiusi all’estero in strutture psichiatriche fatiscenti. I nostri consoli – che sono a norma di legge tutori degli interdetti – potrebbero fare la differenza, e quale differenza.