Cultura

Mathieu Belezi, l’eredità coloniale, minaccia presente

Mathieu Belezi, l’eredità coloniale, minaccia presenteManifesto della Compagnie algérienne (1917) Getty Images

L’intervista Parla l’autore di «Attaccare la terra e il sole», per Gramma/Feltrinelli. Una giovane donna e un soldato narrano il debutto sanguinario della colonizzazione dell’Algeria nell’800. «È una vernice superficiale, gli avvenimenti di oggi, non solo in Francia, lo indicano. Per quanto l’Europa cerchi di civilizzarsi, la rimozione di quel passato alimenta nuovi razzismi»

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 6 luglio 2024

Una famiglia di coloni riunita intorno a Séraphine, al marito e ai figli, incapaci di vedere il dolore che il sogno di riscatto che è stato promesso loro provoca tra «gli indigeni». E un soldato, tra i tanti, bretoni, alsaziani e marsigliesi che sotto la guida di un capitano sanguinario seminano l’orrore tra la popolazione algerina uccidendo, stuprando, dando alle fiamme interi villaggi. Sono due le voci narranti, ugualmente palpitanti, forti e perdute, allo stesso tempo inquietanti e di una fragilità minacciosa, che scandiscono nelle pagine di Attaccare la terra e il sole (traduzione di Maria Baiocchi, Gramma/Feltrinelli, pp. 136, euro 16) la tragica epopea del debutto dell’impresa coloniale francese in terra d’Algeria. Evento letterario di prima grandezza, firmato dallo scrittore Mathieu Belezi (Limoges, 1953) che a quella stagione ha dedicato una parte significativa della propria opera, Attaccare la terra e il sole è un romanzo di temibile e struggente potenza che con una costruzione in apparenza semplice, un discorso diretto che traduce alternativamente le ansie e l’ubriachezza distruttiva dei protagonisti, riesce a rendere il portato collettivo di un capitolo spesso negato della Storia di Francia. Un libro che con estrema determinazione ma altrettanta sapiente poetica del dolore, finisce perciò per interrogare il presente. Belezi interverrà il prossimo 10 luglio alle 18 alla Libreria Ubik di Como e l’11 luglio alle 18 alla Libreria Volante di Lecco.

Un ritratto di Mathieu Belezi firmato da Edoardo Delille

Quando, oltre trent’anni fa, il Front National ottenne le sue prime affermazioni elettorali – nulla di paragonabile all’odierna «marea nera» -, alcuni studiosi osservarono che era il passato coloniale del Paese che stava riemergendo: non aver assunto collettivamente il peso dei crimini perpetrati in Algeria rendeva possibile un nuovo razzismo di massa, specie verso gli arabi. Da tempo lei indaga sul piano narrativo il rimosso del colonialismo di Parigi: ritiene valide quelle analisi e pensa ci dicano qualcosa anche su ciò che accade ora?
Nella Storia tutto è sempre collegato. Ad esempio, non è possibile parlare costantemente della guerra d’Algeria (1954-1962), così come hanno fatto, anche con la complicità di alcuni storici, tutti i governi che si sono succeduti fin qui a Parigi, senza sapere nulla della conquista di quel Paese da parte dell’esercito francese nel 1830 e del modo in cui i coloni hanno amministrato queste cosiddette «terre barbare» durante 132 anni terribili. Certo che i ricercatori cui fa riferimento avevano e hanno ancora ragione a stabilire un collegamento tra la Storia e il presente che vede un partito razzista alle porte del potere in Francia. Ma mi spingerei anche oltre, credo che il razzismo di massa sia sempre esistito: gli uomini rifiutano sempre ciò che non gli assomiglia. Il rifiuto, ma anche il disprezzo, per non dire l’odio delle popolazioni che hanno l’audacia di vivere in modo diverso su questa terra, di pensare diversamente, di amare e morire in altri modi: popoli rapidamente definiti come barbari, subumani che devono essere soggiogati o addirittura sterminati se la loro sottomissione si rivela impossibile. Pensiamo al comportamento spaventoso degli spagnoli e dei portoghesi nella conquista dell’America del Sud, e agli inglesi, ai francesi, agli olandesi, ai tedeschi o agli italiani che si sono comportati in modo altrettanto riprovevole quando hanno tentato di costruire degli imperi nel 19° come nel 20° secolo. E non credo che dopo la Seconda guerra mondiale tali comportamenti sono cambiati in modo significativo. L’Europa ha cercato di civilizzarsi, di considerare altrimenti le popolazioni indigene. Ma la vernice è fragile, gli avvenimenti recenti, in Francia e altrove, lo dimostrano. Forse dovremmo riconsiderare effettivamente la Storia d’Europa, smontare le statue e produrre finalmente una storia popolare di Francia, Inghilterra, Italia o Spagna come Howard Zinn ha fatto per gli Stati Uniti, al fine di comprendere meglio attraverso quali violenze questi Paesi sono passati prima di inventarsi una Storia popolata di eroi da onorare: perché il problema è che questa Storia non è quella giusta.

«Attaccare la terra e il sole» è il suo primo romanzo ad essere tradotto nel nostro Paese, ed è in qualche modo parte di un affresco in vari capitoli che lei ha dedicato alla colonizzazione francese dell’Algeria: perché questa scelta che emerge al centro della sua opera?
Ho scritto quattro romanzi che attraverso le voci di una decina di personaggi, raccontano i 132 anni di presenza francese sulla terra d’Algeria: qualcosa che per me rappresenta più di quindici anni di lavoro. Ma volevo assolutamente impegnarmi in tale progetto, perché la letteratura francese, proprio come il cinema del resto, non hanno neppure osato avvicinarsi al tema, preferendo rifugiarsi in una sorta di autocensura davvero comoda.

Nel libro è descritta la prima fase della conquista coloniale dell’Algeria, intorno alla metà dell’Ottocento. Una storia che si sarebbe conclusa solo nel 1962 con l’indipendenza del Paese nordafricano che era stato a lungo inquadrato amministrativamente come un Dipartimento francese: ritiene che affrontare questa lunga e tragica vicenda rappresenti ancora un tabù in Francia?
La colonizzazione dell’Algeria da parte della Francia, questi 132 anni di turpitudine coloniale, sono argomenti che si evita volutamente di affrontare e che continuano ad essere esclusi dalle proposte di alcuni media. Nonostante con i miei romanzi abbia vinto il premio letterario di Le Monde e quello del Livre Inter, nonostante la vendita di quasi 100 mila copie dei miei libri, fino ad ora non ho mai messo piede in uno studio della televisione francese: lo scrittore Belezi non esiste. Oggi la Francia ha ancora difficoltà a riconoscere i comportamenti inaccettabili tenuti dal suo esercito e dai suoi coloni. Come ha fatto il Paese dei Diritti Umani a dimenticare fino a questo punto i suoi valori fondamentali? Questa è una domanda a cui è davvero difficile rispondere. Ma il mio ruolo di scrittore non è esattamente quello di porre questo tipo di quesito?

Pur se immersa nella tragedia, la lingua del romanzo ha un ritmo poetico e il profilo dei personaggi ne rende palpabili le emozioni e gli stati d’animo: come ha proceduto intorno a questi elementi, a partire da quali suggestioni e da quale documentazione storica?
Per me era molto importante trovare una forma letteraria forte, capace di trascendere le voci di Séraphine e del soldato. Perciò ho inventato questo stile orale deciso, che avvicina il più possibile le parole di questi due personaggi che in realtà non si incontrano mai, ma che, allo stesso tempo, non possono esistere l’uno senza l’altro, perché rappresentano l’avamposto di ogni colonizzazione: il soldato e il colono. È difficile spiegare come lavoro, ma diciamo che prima di ogni altra cosa cerco delle voci. Voci che pian piano si impongono, prendono corpo e autorità. Quindi, permetto loro di esprimersi senza sapere veramente cosa diranno, senza cercare una qualche conferma; e soprattutto sono attento a non censurarli, anche se ad esempio le parole del soldato possono condurre la storia su percorsi molto violenti. Quanto alla documentazione, mi sono basato su un’importante mole di materiali storici, le lettere che i soldati scrivevano alle loro famiglie (come, ad esempio, le lettere del maresciallo de Saint-Arnaud), i rari racconti dei coloni dell’epoca, quelli di Eugène François o Alexandre Villacrose, le opere degli storici, come quelle di Pierre Darmon o Charles-Robert Ageron.

I personaggi del libro evocano la presunta «missione civilizzatrice» della Francia in una terra «barbara». Eppure, malgrado l’impresa coloniale debuttò durante la restaurazione borbonica, sarà la République fondata sui valori di libertà, uguaglianza e fraternità a condurla in seguito: quanto ha pesato questa drammatica contraddizione nel giudizio che in seguito si è dato dei fatti e nel formarsi dell’opinione pubblica al riguardo?
Ogni opera di colonizzazione è stata intrapresa in nome di questa famosa missione civilizzatrice. Era un modo per giustificare degli inaccettabili sbarchi di truppe ai quattro angoli del pianeta. E tutte queste manovre avevano un solo obiettivo: impossessarsi delle ricchezza del Paese colonizzato e ingrandire l’impero che i governi europei stavano edificando per affermare la loro potenza e imporre la loro influenza economica e culturale. Così, tra il 19° e il 20° secolo si è registrata una sorta di «corsa all’impero» da parte dei Paesi d’Europa. Ma, per tornare alla Francia, va detto che la Terza Repubblica (1870-1940) fu prima di ogni altra cosa colonialista e razzista. E fino alla Seconda guerra mondiale (e anche un poco in seguito), nel Paese si esprimevano tranquillamente (sia che si fosse di sinistra come di destra) delle opinioni colonialiste e razziste. Tutto ciò con poche eccezioni, di cui si deve però evidentemente tenerne conto.

In un suo intervento apparso in questi giorni sull’Humanité lei ha scritto che la Francia si trova sul bordo del precipizio e che forse, collettivamente, non solo nel suo Paese, abbiamo perso un po’ tutti la capacità di reagire e di far sentire la nostra voce di fronte al peggio. Che Paese si aspetta esca domani sera dalle urne?
Un Paese ingovernabile. E devo dire che la Francia è arrivata a tutto ciò per mancanza di coraggio, preferendo nascondere i propri errori negli armadi della Storia e lasciando operare delle persone irresponsabili che si sono sforzate di ignorare, o addirittura di far scomparire interi tratti di questa storia coloniale che si è perpetrata in Nord Africa, Madagascar e Indocina. Un grave errore. Che rischiamo di pagare molto caro nei prossimi mesi. Per finire, vorrei citare lo storico Patrick Boucheron che spiega come «riparare non significa cancellare la ferita, ma continuare a guardarla per ciò che è, e affrontare il taglio che ha prodotto».

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