Marx, Foucault e la grammatica del comune
Tempi presenti Alcune ipotesi di lavoro per rendere possibile la convergenza tra l’opera marxiana e la riflessione che Foucault avviò negli anni Settanta sul soggetto e sul potere
Percorrendo il secolo che divide Marx da Foucault e analizzando la diversità delle forme di sfruttamento, di lotte e di modi di vita, vanno fissati alcuni punti che evidenziano le differenze.
Prima differenza. In Marx, l’unità del comando si mantiene nella figura del potere sovrano. Il governo è unificato nella volontà del capitale. In Foucault, l’unità del potere è invece sciolta e nella «governamentalità» si articolano in forma plurale produzioni di potere diverse e diffuse.
Seconda differenza. In Marx, nel capitale si riassume il dominio, le dinamiche storiche dello sviluppo sociale si susseguono sul ritmo delle differenti «sussunzioni», in una univoca prospettiva di «capitalizzazione» – quando non si voglia dire di «statalizzazione» – del sociale. In Foucault, il biopotere si decentra, la sua diffusione avviene per germinazioni diverse, le articolazioni del potere si singolarizzano. Siamo a fronte di una «socializzazione del politico».
Terza differenza. In Marx, il comunismo si organizza attraverso la dittatura del proletariato, che sola può costruire la transizione dalla società capitalista ad una società senza classi. In Foucault, il regime politico della liberazione si organizza nella soggettivazione, si singolarizza come libertà, pone nella produzione in maniera illimitata la costruzione di felicità comune.
Possono essere corrette o riavvicinate queste indubbie differenze? Le divisioni concettuali che, pur sulla base di una medesima linea ontologica, son date possono esser tolte? Possono, probabilmente, esser rese meno importati di quanto sembrino. Per esempio, alla prima differenza – la concezione organica dello Stato e del comando in Marx – è fortemente attenuata, sul livello politico, dall’analisi storica dei comportamenti delle classi sociali, dal dispositivo interpretativo della «guerra di classe» e dei suoi effetti transitori e multipli; e poi dalle ipotesi (e dalle critiche) «comunarde» sviluppate nei suoi diversi scritti storici. È comunque soprattutto sul terreno della critica dell’economia politica che quella concezione è profondamente modificata quando dall’analisi dei processi produttivi e riproduttivi – in figure fortemente centralizzate e astratte – Marx passa all’analisi della circolazione sociale delle merci, riconducendo i processi produttivi ai processi di formazione del valore; poi riscendendo verso l’analisi del salario e di conseguenza alla descrizione delle classi sociali e dei modi di vita. Il moltiplicarsi e il diffondersi dei meccanismi di potere disegnano allora larghi spazi quando la società diventa fabbrica, i processi di potere si moltiplicano, divengono differenti, e su queste differenze si mettono letteralmente in pulsazione.
Alla seconda differenza: a fronte della «capitalizzazione» ovvero della «statalizzazione della società» (che si presenta in maniera estremamente violenta nell’«accumulazione originaria») si dà anche in Marx una certa «socializzazione dello Stato» che appare nel processo di trasformazione del modo di produrre capitalistico, dalla «sussunzione formale» alla «sussunzione reale». Roberto Nigro ha soprattutto insistito su queste analogie della sussunzione fra Marx e Foucault; mentre Pierre Macherey ha cercato di cogliere, attraverso l’analisi di queste trasformazioni della società, quella mutazione del «soggetto prodotto» in «soggetto produttivo» che sta per Foucault al centro del problema della soggettivazione.
Alla terza differenza – quanto al comunismo marxiano, alla dittatura del proletariato e, di contro, al suo rovesciamento ontologico nella teoria della soggettivazione foucaultiana – si può forse qui stabilire una qualche somiglianza, avendo presenti le pagine sul comunismo, il General Intellect e l’«individuo sociale» nei Grundrisse. Questa simiglianza diventerà evidente nelle Lezioni foucaultiane a partire dal ’78, e probabilmente risulta il frutto di discussioni avvenute con amici, colleghi e collaboratori nei circoli foucaultiani dell’epoca e comunque nella registrazione di una storiografia di matrice marxista – penso in particolare al lavoro di Edward P. Thompson.
Tra singolarità e astrazione
Queste somiglianze avvicinano i due autori attorno ad alcune tematiche centrali (Stato, società e soggetto), ma solo collocandole all’interno della dissolvenza del moderno, non dello sviluppo di una nuova ontologia. Va notato tuttavia che la sottolineatura di queste differenze (e somiglianze) fra Marx e Foucault è possibile solo facendo riferimento al lavoro di Foucault che arriva al tornante biopolitico dei corsi del 1977-78 e ’78-’79. Le analogie qui determinate restano confuse. I concetti sono trattati in maniera ambigua. Basti pensare che, per Marx, nel primo e nel secondo esempio, ogni accentuazione discorsiva non è data in termini di singolarizzazione ma piuttosto di estrema «astrazione». L’opposto vale per Foucault.
Lo studio di Foucault a partire dai corsi del ’77-’78 e dei suoi scritti e lezioni quando, dopo il 1984, è avvenuto non a partire dalla sua filosofia, ma del suo essere militante (i corsi al Collège de France hanno tonalità siffatte che permettono anche questa lettura). Solo così è possibile definire una base che vada oltre le eventuali superficiali convergenze fra il pensiero marxiano e quello foucaultiano su governamentalità, biopolitica e soggetto, permettendo il comune innesto in un’ontologia del presente.
È in quegli anni che Foucault avanza nell’articolazione di politica e di etica, definendo un «rapporto a sé» che è – contro ogni operazione individualizzante ed ogni ripresa del soggetto cartesiano – costituzione collettiva del soggetto e sua immersione nel processo storico. Ne viene una «destituzione» del soggetto, che si presenta come scavo del Noi – del rapporto Io/Noi – non solo come divenire ma come pratica della molteplicità. Quando analizziamo «la cura di sé» – su cui tanto si sofferma Foucault – avvertiamo che essa non è riducibile a pratica individuale e tantomeno – ripeto l’approccio di Judith Revel – «come una risposta individuale ad un potere che tende a costruire e a plasmare secondo le sue necessità la figura dell’individuo».
L’etica si propone su questo incrocio dell’essere e del fare. Ne segue il decentramento nel processo di soggettivazione che è tutto politico. È qui che i cinici trionfano e che la parrêsia si chiarisce non semplicemente come volontà (di dire il vero) ma come terreno di verità. Ma per affermare questo occorre insistere, non solo sulla coppia potere-resistenza che introduce una asimmetria tra i due termini – pur non pensabili l’uno senza l’altro – ma soprattutto sul carattere ontologico di questa differenza.
Ricorrenti genealogie
Infine, è chiaro che lo sviluppo dei processi di soggettivazione conduce a una riformulazione continua della grammatica (e delle pratiche) del potere. Se l’archeologia riconosce la differenza esistente fra ieri e oggi e la geneaologia sperimenta la differenza possibile fra domani e l’attualità – tutto ciò non lo si può fare se non attraverso un’indagine accurata sul presente, attraverso «un’ontologia critica di noi stessi». Ed è attraverso questa ontologia critica di noi stessi piantata nel presente che noi abbiamo la possibilità, meglio, la necessità di mettere in crisi le categorie del moderno. Molti esempi possono a questo scopo esser fatti, ma quelli che soprattutto sembrano fondamentali sono le problematiche che riguardano la nuova qualità del «lavoro vivo» e le nuove dimensioni della sua capacità produttiva; in secondo luogo, l’esaurirsi della dimensione del «privato» e del «pubblico» e l’emergere di quel terreno «comune» che il rapporto Io/Noi determina.
Ora, l’importante di questa sequenza della storia, dell’etica e del fare politico è di costituire la proiezione, meglio, il dispositivo di un’ontologia aperta, di una vera e propria produzione di essere. È forse curioso ma non meno rilevante, ricordare questa posizione foucaultiana, sviluppata in un’epoca nella quale le ultime risultanze dell’esistenzialismo sartriano si erano imposte anche nell’ambito della sinistra rivoluzionaria. Ora, contro Sartre, in Foucault non c’è libertà del soggetto e necessità del fatto ma determinazione necessaria del contesto ontologico e sua apertura, libertà dell’agire e del fare etici.
La minaccia di Heidegger
Nel post-moderno, dopo Heidegger, l’ontologia non si definisce più come luogo del fondamento del soggetto, ma come un agencement linguistico, pratico e cooperativo, come tessuto della praxis: insomma è una ontologia dell’essere presente che ha spezzato la continuità della filosofia trascendentale, così come era venuta fissandosi a partire da Kant. Questa ontologia si strappa letteralmente dall’ontologia della modernità e dalla sua radice cartesiana, dalla centralità del soggetto e si impianta sulla nuova materialità dei «modi di vita». È qui abbattuto lo schermo epistemologico come ponte necessario verso la realtà. È Heidegger che procede su questo terreno, ma è anche Heidegger che paradossalmente lo rende impraticabile quando l’operare tecnico, che ora costituisce il mondo, si scontra con l’opera stessa. In Heidegger, dove l’essere non è produttivo, la tecnica affoga infatti la produzione in un destino inumano che introduce nella genesi della nuova ontologia un segno di perversione. La tecnica ci restituisce un mondo devastato: qui inevitabilmente riappaiono allora i fantasmi del soggetto, ben rappresentati nell’esistenzialismo di Heidegger.
Fra Nietzsche e Foucault sembra invece definirsi un’altra via. Essi assumono infatti l’essere del mondo per quel che esso è, lo scavano per conoscere ciò che esso è divenuto, per manipolare i detriti del passato, la compattezza del presente, l’avventura di ciò che sta davanti – colto nella sua realtà materiale e aperto nella sua temporalità. Per loro vale una spinta a riempire di storia l’ontologia, a stabilire relazioni linguistiche e dispositivi performativi, ricostruzioni genealogiche e volontà di verità, in modo che producano – interagendo – nuovo essere. Essi tendono ogni rapporto su macchine costitutive di mondo. L’epistemologia trascendentale è accantonata – essa non può costituire una garanzia di conoscenza per quell’ontologia del presente dentro la quale si produce la nostra vita.
La costruzione dell’avvenire
In Foucault è espresso, nella maniera più alta, questo essere immersi in una nuova ontologia del presente. Un essere comune: dove la dipendenza reciproca e multilaterale delle singolarità costruisce l’unico terreno sul quale sia possibile porre l’interrogativo conoscitivo e cercare la verità. Liberarsi di quella cultura significa sbarazzarsi del soggetto sovrano e del concetto di coscienza – e con essi di ogni teleologia storica. Significa concepire l’ontologia come tessuto e prodotto della praxis collettiva. Alla metà degli anni Settanta, leggendo quanto Foucault aveva a quel momento prodotto, percepivo una impasse e mi chiedevo se essa non dovesse esser superata, oltre il culto strutturalista dell’oggetto e la fascinazione spiritualista del soggetto, da una pulsione alla soggettivazione, alla costruzione ontologica de l’«a-venire». Ciò è avvenuto a partire dalla fine dei Settanta.
In Marx siamo di fronte ad una medesima forma di radicamento ontologico. Un radicamento nella/della presenza storica ed il suo ricostituirsi continuo. Manca una qualsiasi metafisica del soggetto. Il tessuto ontologico è il medesimo di quello fin qui segnato come «nuova ontologia». Assumere questa immediatezza ontologica non significa non tenere in conto la diversità dei periodi storici e conseguentemente delle «forme di vita» alle quali la riflessione si applica, per esempio in Marx e Foucault, ma semplicemente essere in grado di confrontarle su una base omogenea.
Una versione più lunga di questo testo è pubblicata nel sito Internet: www.euronomade.info
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