Cos’altro di nuovo si può scoprire su Marlene Dietrich (1901-1992), una donna, un’attrice, un mito che ha attraversato in maniera straordinaria tutto o quasi il Secolo breve, nel cinema ma anche nella politica o nel costume? È una domanda quasi retorica a cui non è necessario rispondere ma «Il Cinema Ritrovato» non ha rinunziato alla sfida, proponendo una rassegna che senza dubbio resta tra le più glamour (e probabilmente popolari) di questa edizione 2024.

«Forza dirompente del cinema» si intitola l’omaggio curato dalla Deutsche Kinemathek di Berlino a cura di Kristina Jaspers, Peter Mänz, Silke Ronneburg e Rainer Rother all’attrice berlinese la quale passò meno di un terzo della vita nella sua città e in una nazione che continuò sempre ad amare – malgrado il nazismo e malgrado le accuse post-belliche di essere stata «una traditrice». Oltre a due mostre fotografiche, sono dieci i film proposti per la retrospettiva, più due documentari e, last but not least, una piccola, vera perla tra grandi perle: la digitalizzazione (compiuta nel 2017) di una serie di Home movies realizzati dalla Dietrich negli anni Trenta (circa 1931-1942).

Sono delle brevi sequenze di 16 mm amatoriali in cui l’attrice si riprende in famiglia, con il marito l’aiuto regista Rudolf Sieber e la figlia piccola Maria (Riva) oppure con amici/e importanti tipo l’eccentrica miliardaria inglese Jo Carstairs, lo scrittore Erich Maria Remarque o lo sceneggiatore Max Colpet; ma anche la vediamo (a Venezia) in compagnia del suo «pigmalione» Josef von Sternberg oppure insieme agli attori Douglas Fairbanks Jr. (a Londra) e in macchina con Jean Gabin (in California) con cui ebbe una importante relazione (a Dietrich&Gabin è dedicata in specifico una collezione di rari scatti alla Biblioteca Renzo Renzi). Né mancano delle divertenti immagini dai set di Destry Rides Again (Partita d’azzardo, 1939) e Seven Sinners (La taverna dei sette peccati, 1940) oppure in visita ad un’altra grande collega trasgressiva e fuori dalle regole, Mae West, che girava My Little Chickadee (1940).

Tra i più dei cinquanta film interpretati dalla Dietrich non potevano mancare alcuni dei titoli più famosi che l’hanno resa una celebrità assoluta della Storia del Cinema (nel 2014 l’American Film Institute la ha inserita al nono posto tra le più grandi star mondiali), a partire dal suo primo grande successo internazionale, Der blaue Engel (L’angelo azzurro), diretto nel 1930 da Josef von Sternberg. Sarà lui il regista che ne plasmerà l’immagine mitica, in modo profondo, come femme fatale trasgressiva, e con cui girerà in un quinquennio altri sei film, tra cui il suo primo americano, Morocco (1930) dove si può vedere in una celeberrima scena dove bacia un’altra donna, diventando così una icona del movimento queer.

La loro collaborazione grazie anche all’esemplare autodisciplina artistica dell’attrice e alla maestria del direttore della fotografia Lee Garmes che creò per lei una particolare luce con cui riprenderla ed esaltarne la fotogenia, appartiene ad una dei capitoli più noti e studiati del cinema mondiale, un sodalizio pari per importanza solo a quello – dieci film spalmati però in diversi decenni – tra George Cukor e Katharine Hepburn, collega di lavoro per altro molto apprezzata dalla Dietrich.

Finito nel 1935 con The Devil Is a Woman (Capriccio spagnolo, non in rassegna a Bologna) il legame artistico con von Sternberg, inizierà un periodo difficile nella carriera dell’attrice che comincerà a mutar pelle e stile: corteggiata (senza successo) da Hitler e Goebbels che la volevano a tutti i costi far rientrare in Germania, considerata dagli esercenti negli Usa, dopo il fallimento economico di alcuni suoi film con Sternberg, una sorta di «veleno al botteghino», Marlene, ormai diventata cittadina americana, tornerà al grande successo con la già citata commedia-western Destry Rides Again (Partita d’azzardo, 1939) di George Marshall dove, in scatenata coppia con James Stewart e nella parte della cantante Frenchy, si era ormai emancipata dal personaggio della vamp tenebrosa. Impegnata come poche altre durante la guerra a intrattenere con i suoi show (in cui, tra l’altro, cantava il celebre song «Lili Marleen») le truppe americane in guerra e iniziata una intensa attività di cantante, del dopoguerra sono alcune sue interpretazioni memorabili.

Tra di esse, quelle dirette dall’amico Billy Wilder (altro esule dalla Germania nazista) in A Foreign Affair (Scandalo internazionale, 1948) o in Witness for the Prosecution (Testimone d’accusa, 1957, dall’omonima opera teatrale di Agatha Christie) – per non parlare della sua indimenticabile apparizione in Touch of Evil (L’infernale Quinlan, 1958) nel ruolo di Tanya, la padrona di un bordello, che legge le carte al corrotto poliziotto Hank alias il «genio» Orson Wells (e ci aveva visto giusto!).

Abbiamo sinora parlato di opere estremamente, giustamente celebri, vale la pena però segnalare anche alcuni titoli della rassegna (relativamente) meno conosciuti. Tra le interpretazioni nel periodo della Repubblica di Weimar precedenti l’Angelo azzurro (che per altro è poi restato l’ultimo film tedesco di Marlene), ne vengono proposte due in cui il suo ruolo va al di là di una breve comparsata e sono particolarmente significativi: Café Electric (Austria, 1927) di Gustav Ucicky e soprattutto Die Frau, nach der man sich sehnt (Enigma, 1929).

Diretto da Kurt (Curtis) Bernhardt in seguito anche lui emigrato prima in Francia e poi a Hollywood, il film è tratto dal romanzo omonimo (1927) di Max Brod, all’epoca romanziere celebre oggi noto ormai come storico curatore delle opere di Franz Kafka. Oltre ad essere opera ben girata e molto godibile, in essa la Dietrich interpreta per la prima volta quella figura, poi cesellata alla perfezione da von Sternberg, della donna fatale, spezzata ma anche dolente, che porta alla rovina l’uomo – in questo primo caso è un suo amante interpretato con perizia da Fritz Kortner, per altro poi diventato una delle massime autorità del teatro tedesco del Novecento.

A chiudere il quadro, consigliamo di vedere anche i due documentari che completano la rassegna bolognese: il primo particolarmente notevole porta la firma dell’attore Maximilian Schell con cui avevano girato insieme Judgment at Nuremberg (Vincitori e vinti, 1961) di Stanley Kramer. Dopo molte vicissitudini e costretta da ragioni economiche, la Dietrich acconsentì al progetto, con la clausola di non comparire mai in scena né di dover cantare, in questo «acido», talvolta aspro ritratto che si intitola icasticamente Marlene (1984).

Malgrado gli ostacoli e le difficoltà incontrate (dopo tre giorni di riprese si dovette abbandonare l’intervista per l’ostruzionismo sistematico della Dietrich), Schell ci ha consegnato un documentario a tratti memorabile – non tanto e non solo per lo splendido materiale d’archivio montato ma anche per la personalità e le idee della donna /attrice ormai anziana che descrive. Molto più tradizionale nella struttura ma non meno interessante, è, invece, Marlene Dietrich: Her own song (2001), realizzato postumo, a quasi dieci anni dalla sua morte, dal nipote J. David Riva.

Frutto di notevoli, approfondite ricerche d’archivio internazionali, oltre che di importanti testimonianze, il documentario si concentra soprattutto sull’engagement della Dietrich durante la Seconda guerra mondiale e successivamente, per offrirci una dettagliata immagine di una donna molto combattiva e politicamente impegnata, lontana ma specularmente altrettanto veritiera di quella della (più celebre) vulgata mitica degli anni Trenta. Ma ciò si intuiva già da allora, dato che per il suo grande impegno civile nella causa antifascista, fu la prima donna nel 1947 ad essere insignita della prestigiosa «Presidential Medal of Freedom».