Marlen Haushofer, contemplazione di un delitto senza catarsi
Che sia un omicidio non ci sono dubbi. Si tratta ora di ricostruire i fatti, assegnare le colpe, immaginare una condanna: Marlen Haushofer, avida lettrice di libri gialli, sceglie come esemplare detective un tipo isolato e abitudinario, la cui indolenza trova un momentaneo riscatto nella «concentrata attenzione di un osservatore che non perde affatto di vista gli ignari delinquenti» – scrive Benjamin sovrapponendo flaneur e investigatore – per assicurarli alla giustizia e curare così le ferite del mondo. Protagonista delle indagini – in Noi uccidiamo Stella è una donna «senza qualità», coinvolta nel delitto e aggrappata – contro ogni canone – solo al presente. Pubblicato nel 1958 da una piccola casa editrice di Vienna, questo breve, impietoso, a tratti geniale racconto scritto «su un tavolo di cucina» è «uno dei testi essenziali della letteratura austriaca» del secondo dopoguerra, scrive Daniela Strigl; forse datato, nella sua critica a una asfittica società patriarcale, ma sconvolgente come palinsesto di fallimentari esperienze femminili, viene ora riproposto da L’Orma (era già stato tradotto nel 1993 da e/o) con un titolo non del tutto convincente Noi e la morte di Stella (per la inappuntabile traduzione di Eusebio Trabucchi, pp. 95, € 15,00).
Come la protagonista senza nome dell’opera più nota di Marlen Haushofer La parete, del 1963, Anna vive in una bolla. Non ha lavoro, né interessi, è legata ossessivamente al figlio e trascorre le giornate mettendo in ordine o guardando dai vetri il suo giardino, traccia addomesticata e impraticabile di un Eden smarrito. Rimasta per una volta a casa da sola nel fine settimana, sente l’esigenza di ricostruire la vicenda di Stella, la ragazza che le era stata affidata da una madre frivola e distratta e che lei non aveva protetto, in una scontata métaphore maternelle: «Il mio compito sarebbe dovuto essere quello di salvaguardare la vita e proteggerla da colpi in grado di ucciderla». Anna si era limitata, invece, a osservare quella giovane donna ingenua, sola e sensibile andare in rovina sotto i suoi occhi: «condannata sin dal principio a fallire, lei e il suo sentimento semplice e folle nel nostro mondo decadente e disgregato». Aveva diciannove anni, Stella, quando – dopo lunghi soggiorni in collegio – era stata accolta senza entusiasmo dalla famiglia di Anna, amica della madre: Richard, padre e marito all’apparenza esemplare, l’aveva sedotta, fatta abortire, poi abbandonata. E Anna aveva compreso, condannato, e in quanto madre, amica, donna tradita, aveva taciuto. Disorientata e sola, Stella era poi finita schiacciata da un camion in un incidente da lei stessa provocato, quasi priva di consapevolezza, e senza suscitare scandali.
«È di Stella che voglio scrivere e del modo in cui la abbiamo uccisa», annota Anna. «Devo scrivere di lei prima di iniziare a dimenticarla. Perché dovrò dimenticarla se voglio riprendere la tranquilla esistenza di prima». Per quanto inutili, perché non lasceranno probabilmente tracce nella sua esistenza, queste pagine riescono però a rompere il torpore in cui si è rintanata. Alla fine del suo resoconto, Anna potrà affermare senza incertezze che il marito è un assassino, e che tanto lei quanto la madre della ragazza sono colpevoli, almeno per essere rimaste a guardare negandosi persino ai richiami del loro senso materno e alla loro femminilità.
Molto della vita di Marlen Haushofer, nata in Alta Austria nel 1920 e morta a Vienna nel 1970, si ripete nella vicenda delle due donne: «Non scrivo mai qualcosa di diverso dalle mie esperienze personali – aveva detto in una intervista radiofonica a Elisabeth Pablé. Tutti i miei personaggi sono parti di me, personalità scisse, per così dire, che conosco bene. Se appare un personaggio che mi è estraneo, mi accontento di descrivere il suo aspetto e il suo effetto sul mondo circostante».
Come Stella, l’autrice aveva vissuto a lungo in collegio, poi un anno in Germania con un amore difficile e una gravidanza solitaria, accettata con coraggio nel conformismo degli anni Quaranta. Aveva poi sposato un uomo simile a Richard e si era adeguata, tra compromessi e abbandono di sé, a tradimenti e incomprensioni, almeno fino al divorzio e a un nuovo rassegnato matrimonio.
La marcatura privata di questa storia si incrina davanti allo strano colore del camion che schiaccia Stella: un giallo che evoca senza indulgenza (e senza retorica) gli anni bui della connivenza con il regime nazista. Per quanto sciatta, la morte di Stella getta la sua ombra sulla generazione di austriaci che si erano impadroniti sprezzanti e indifferenti delle vite degli altri immaginando di trasformarsi da servi in superuomini. Accanto agli assassini, non meno colpevoli erano stati quelli che, come Anna, avevano capito e forse in cuor loro anche condannato, barattando tuttavia con noncuranza l’opacità del vivere al prezzo di silenziare la propria coscienza.
Al processo della donna non c’è appello: lutto e melanconia si impossessano definitivamente delle pagine e della vita di Anna. E nulla cambia: al termine dei due giorni in cui è rimasta sola, il marito rientra tenendo la figlia per mano e si riattiva ai suoi occhi il ridicolo idillio domestico, mentre il ‘romanzo poliziesco’ che ha scritto non riuscirà – come il genere vorrebbe – a ridare un ordine a quel mondo che il delitto ha sconvolto.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento