A quarant’anni dal primo album dei Gang, Marino Severini, anima della band insieme al fratello Sandro, è ancora on the road. Da Filottrano, provincia di Ancona, porta in giro un mix di combat rock, musica popolare e poesia di strada suonato con coscienza politica e consapevolezza artistica. Questi tratti emergono anche dalle pagine di Quel giorno Dio era malato, libro da poco uscito per Milieu con gli appunti e le storie di questi anni.

La nostra chiacchierata parte da quando nel 1991, dal grande palco del Primo maggio di piazza San Giovanni, prima di attaccare «Socialdemocrazia» («Benvenuti a terra con un foglio di via/ nel paradiso, socialdemocrazia»), Marino pensò di indire lo sciopero generale, con tanto di volantino e rivendicazioni. I Gang parlavano già allora di lavoro migrante e salario garantito. «I sindacato si incazzò – ricorda – E il nostro scopo era proprio quello! Il regista dell’evento tv, Cesare Pierleoni, disse: ‘Finché sto alla Rai, non tornerete più’. Ma i socialisti al governo e Pierleoni alla Rai durarono poco. Eravamo sabotatori, un po’ ingenui e un po’ spacconi».

Parli della funzione «profetica» del rock’n’roll. Trovi la sintesi nelle parole del teorico dell’operaismo, Mario Tronti: profeta è chi «vede nel presente quello che altri non vedono e dice del presente quello che altri non vogliono ascoltare». Il profeta, dice ancora Tronti, «deve far vedere e deve far ascoltare».
Tronti è una delle mie «tre stelle sul cappello», uno di quelli che illuminano il mio cammino. Mario aggiunge anche che per far vedere e ascoltare occorre una lingua diversa da quella dei padroni, dei potenti, e dei loro servi… Ecco perché il rock’n’roll. Il linguaggio della strada. All’anagrafe sono figlio di Cesare Severini e Nella Baldezzi ma sono figlio anche di una storia. Soprattutto quella del Novecento, secolo di tre grandi rivoluzioni: quella del ’17 in Russia, la teologia della liberazione e il rock’n’roll.

Il rock’n’roll alla stregua dei grandi sommovimenti politici?
Ho sempre inteso il rock’n’roll come la più grande cultura popolare del Novecento. Contiene le storie, quelle che fanno una Storia diversa da quella dei vincitori, la Storia dei vinti. Dei banditi, dei poveri, degli sfruttati, degli ultimi. Da qui nasce e si rivitalizza continuamente la figura del fuorilegge (Bob Dylan in «John Wesley Harding» ne fa un Messia), colui che viola la legge per affermarne il principio. Il principio che tradotto è «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Nei poveri troviamo sempre un incontro fra teologia e politica. La cultura popolare ci permette di mantenere viva la memoria, ecco perché da vinti ci rende invincibili.

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Altrimenti siamo intrappolati nel presente?
Bloch scriveva che «sotto il faro non c’è luce». La cultura popolare ci consente di allontanarci dal faro. Ci permette una visione eterna, il rapporto fra tempo dell’essere e quello dell’esistere. Un cammino per la conquista della dignità, della libertà della felicità. Dagli schiavi crocefissi sulla via Appia fino ai cadaveri dei migranti nel Mediterraneo, quel cammino continua. Passando anche per la grande epica del lavoro e della classe operaia. Questa visione ci libera dal pantano del presente, ci connette al passato e ci restituisce il futuro.

Tronti ama «Sesto San Giovanni», che si trova nell’album Storie d’Italia del 1993. «Primo turno lunedì sei di mattina/ Sesto San Giovanni/ Billy Bragg che canta nella nebbia/ consola i tuoi trent’anni/ Lontane sono le torri di Milano/ le sue luci cieche/ in fila in tangenziale le promesse/ si sentono tradite».
È un onore. «Sesto San Giovanni» canta la sconfitta della classe operaia a differenza di canzoni come quelle di Della Mea o Pietrangeli che hanno cantato la classe operaia alla riscossa, stava avanzando e vincendo. Come i partigiani riscattarono l’orrore del nazifascismo con la Costituzione, la classe operaia ha riscattato gli orrori della rivoluzione fordista con la dignità.

Cantavi in inglese. Sandro Portelli ti disse di cantare in italiano.
Portelli è l’altra stella sul cappello: rappresenta la consapevolezza. Senza la scuola di pensiero e azione che da Ernesto de Martino (e Alan Lomax) passa da Gianni Bosio e arriva al Portelli dei «giorni cantati» saremmo un’altra cosa. Sono le molliche di Pollicino che mi riportano a casa: a Gramsci, profeta del rock’n’roll, basta leggere il Quaderno 22 su Americanismo e fordismo… Per tornare a Portelli, fu lui più di ogni altro a convincermi nel 1990 che era il momento di cantare in italiano. Era necessario costruire un ponte affinché ciò che restava delle nostre storie, della nostra epica, delle nostre culture passasse oltre, verso il futuro. Dai Clash avevamo imparato a costruire più che distruggere. Portelli ci ha dato la benedizione prima del nuovo viaggio.

Ecco, i Clash. Racconti la folgorazione del concerto a Bologna, nel 1980 a Piazza Maggiore. Dici che Joe Strummer vi ha fatto capire che c’era anche un «prima»: bisognava andare avanti connettendosi a quel «prima».
Per andare avanti devi tornare indietro. Lungo la via del ritorno potrai costruire un’idea, una visione del futuro, con i frammenti che troverai lungo la strada. Strummer fu un grande condottiero. Per liberare il rock’n’roll dalle catene della spettacolarizzazione, del mercato, degli spartiti musicali, dalle accademie e delle élite, i Clash tornarono alle radici! Tornarono a Bo Diddley, Eddie Cochran, Buddy Holly, al cinema di Hollywood e ad Allen Ginsberg, ai western di Leone, alla guerra di Spagna. Resuscitarono tutto ciò con la bass culture, la rivolta delle comunità di «deportati» dai Caraibi fino al rap delle culture afroamericane. Avevano la visione e la coscienza della strada fatta, erano credibili e autorevoli, avevano stile! Conoscevano il passato, lo sapevano trattare: furono in grado di abbattere le mura di Gerico e condurre il rock’n’roll verso il villaggio globale. Il futuro!

Tutto parte prima: da Woody Guthrie e dalla sua chitarra con la scritta «This machine kills fascists». Lui diceva: «Se il mio popolo avanza io avanzo, se il mio popolo indietreggia io indietreggio». Dove va oggi il tuo popolo?
Vive nella palude del presente, privato del desiderio e delle passioni. Tiene gli occhi sempre a terra, attento a dove mette i piedi, corre il rischio di essere risucchiato dalle sabbie mobili. La paura lo paralizza e lo chiude in sé stesso. Se alzasse lo sguardo verso l’orizzonte scoprirebbe che c’è un racconto nuovo, che lo chiama ad ascoltare e a scrivere il suo capitolo. Non credo che questo sia il tempo dell’apocalisse. Siamo solo alla fine di un racconto, lo sosteneva anni fa Pietro Barcellona. Per qualche secolo abbiamo creduto al racconto illuminista, al dominio della ragione. Quella che ci ha dato la tecnica e la tecnologia, con le quali abbiamo dominato la natura coi risultati che abbiamo sotto gli occhi. Miliardi di persone non ci credono più. Occorre un nuovo racconto, quello di un uomo nuovo. L’uomo planetario, che contiene in se moltitudini e tutte le differenze come canta Bob Dylan citando Walt Whitman. È la grande visione di don Ernesto Balducci.

La terza «stella sul cappello».
Balducci mi ha condotto a un Marx diverso da quello del Manifesto, il Marx giovane, del «sogno di una cosa»: intendeva riformare la coscienza non tramite i dogmi ma tramite l’analisi della coscienza mistica. È il sogno antico che il mondo contiene in sé stesso, non ha che da averne coscienza per possederlo. Sta qui la grande potenza di Marx, ancora indispensabile per la più grande delle opere: la futura umanità.

Che ruolo hanno le storie di cui parlavi, in questa missione?
Il Canzoniere dei Gang contiene le tre grandi tradizioni che possono dirottarci verso il futuro. La tradizione cristiana (vedi Balducci, Turoldo, Zanotelli, don Gallo, don Milani, per fare alcuni nomi); la tradizione socialista e comunista ripartendo da Gramsci; e la tradizione delle minoranze: quelle eretiche, il movimento delle donne, i migranti e infine le sottoculture, che per trent’anni hanno riportato il conflitto nella strada quando era sparito dalle fabbriche e le università. Questo è il futuro, l’avvento di un nuovo umanesimo, la stagione che stiamo aspettando da cent’anni di solitudine.

Suonando, girate per il paese ormai da anni. Luciana Castellina dice che non è vero che la sinistra non esiste più: basta andare sui territori per trovare una ricchezza sociale immensa. Voi avete il polso di tutto ciò.
Da anni dico a chi si lamenta: «Vieni con me un mese o due e poi vediamo se dici ancora che non c’è più niente». Esiste una sinistra sbandata e sconfitta, ha trovato riparo nei piccoli gruppi. Per certi versi questa dimensione è positiva: nei piccoli gruppi si ritrovano i rapporti umani. Ma a lungo andare i piccoli gruppi si burocratizzano, deperiscono. Questa fase non può durare più del necessario affinché si torni al grande cerchio, al campo aperto, alla società, alla politica! I fascisti sono sempre puntuali: arrivano quando un paese non ha futuro. Il futuro è patrimonio della sinistra: il piano quinquennale, la prospettiva, la capacità di progettare, organizzare, tenere il passo nelle lunghe distanze.

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I Redskins cantavano «Neither Washington nor Moscow». I Clash «Ivan Meets GI Joe». Il senso era: combattiamo l’imperialismo da qualunque parte provenga.
Nei film western quando si costruisce la ferrovia lì convergono tutti gli angeli e i diavoli della terra: banchieri, gringos, allevatori, predatori di ogni genere e venditori di medicina, perché lì si vanno a fondare le basi di una nuova economia nel momento in cui essa è ancora fuori controllo. Oggi si sta costruendo un ferrovia che dalla Cina va in Africa. Non è più la via della seta, è quella del container. Ognuno vuole la sua parte prima che arrivi la politica a mediare. Sia chiaro, sulla guerra in Ucraina non voglio legittimare un criminale come Putin. Ma se c’è un errore, lo ha compiuto chi non è riuscito a trovare una soluzione politica.

A che punto è il nuovo album?
Stiamo finendo di registrare le chitarre con Jono Manson. Entro un mese finiremo i missaggi. Vogliamo riportare a casa le nostre canzoni che sono della Wea: queste saranno le prime dodici. A settembre contiamo di spedirlo ai nostri primi 1490 co-produttori. Altri ne arriveranno, tanti dei nostri non guardano i social. Anche questo modo di fare i dischi dimostra la fine del pensiero unico. Ecco perché trovo questi tempi avvincenti. Non c’è da essere nichilisti o depressi!