Cultura

Massimo Zamboni: Emilia fedele alla linea, i giovani ci salveranno

In alto Da sinistra: Giovanni Lindo Ferretti, Annarella, Massimo Zamboni e Fatur di nuovo insieme foto di Michele Lapini/SmkFactoryGiovanni Lindo Ferretti, Annarella, Massimo Zamboni e Fatur di nuovo insieme – foto di Michele Lapini/SmkFactory

Tipi sinistri «Grato a Giovanni Lindo, siamo una somma di contraddizioni ma dopo la mostra a Reggio ognuno riprenderà la sua strada»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 agosto 2023

Massimo Zamboni, nel lungo cammino che ti ha portato dal punk dei Cccp degli anni ’80 a Berlino a scrivere un libro dal titolo “La trionferà” con una bandiera rossa in copertina, che cosa pensi sia oggi la sinistra?

Questa è la domanda delle domande. Io vengo da una famiglia che storicamente non è mai stata di sinistra anzi è stata decisamente di destra, squadrista poi fascista poi silenziosa. C’erano alcune eccezioni, che sono quelle che fortunatamente mi hanno educato sin dall’adolescenza. Incontrare l’antifascismo è stata una lotta di liberazione nel vero senso della parola: aprire gli occhi sul mondo, cercare di affrancarmi anche nella maniera più fragorosa possibile dall’ambiente che mi aveva imprigionato fino a quel momento. Questo è avvenuto grazie alla cultura, grazie ai viaggi, grazie alla musica, grazie al cinema, a tutte le armi che ho trovato a disposizione. Io sono emiliano, sono di Reggio Emilia, sono obbligato per lunga genesi a pensare che “La trionferà”. Lo penso per salvezza individuale e collettiva. Non possiamo arrenderci di fronte all’evidente fallimento dei regimi che hanno accompagnato l’esperienza del socialismo nel Novecento. Come dicevamo ai tempi dei CCCP: a volte si rimane fedeli a una causa perché gli avversari di quella causa non cessano di essere insulsi o violenti. E questo titolo con quella copertina così sfacciata, con questo ragazzo androgino in copertina, molto giovane, sventola una bandiera rossa di cui probabilmente non conosce nulla, ma conosce quello che rappresenta: incarna dei valori, una speranza di mondo, di futuro che dobbiamo continuare a coltivare. Contro tutte le evidenze, contro tutto e tutti, perché viaggiando lungo l’Italia a presentare il libro ho trovato una moltitudine di persone che hanno bisogno di continuare a pronunciare “La trionferà”. Non facciamoci depredare da tutto. Ci stiamo facendo derubare del territorio, del lavoro, della nostalgia, di qualsiasi valore, dell’idea del collettivo. Decidiamo noi qual è il nostro lessico, decidiamo noi che cosa vogliamo perdere e cosa vogliamo trattenere.

Massimo Zamboni
Massimo Zamboni

L’evidenza però è tutt’altra. Il fallimento potrebbe essere la parola migliore per rappresentare quanto meno la proiezione politica di quelle idee anche in Italia. Anche in Emilia: tu nel libro racconti la prima cooperativa. Oggi quella grande idea socialista viene usata in maniera truffaldina proprio per sfruttare i lavoratori.

Lo capisco perfettamente. Da buon emiliano mi sono sempre crogiolato nell’idea che il comunismo somigliasse a quello che stava avvenendo in Emilia, dove tutto era comunista. Forse non abbiamo mai approfondito davvero bene cosa significhi quella parola, ma dalle nostre parti si è riferita a una modalità di governo e di condivisione fortissimi per un certo numero di decenni, diciamo anche per tutto il secolo; in fin dei conti, almeno fino alla svolta della Bolognina, dove viene sancita la fine.

Non hai usato la parola utopia. E’ una scelta ponderata, è una parola che non ti appartiene? Da “buon emiliano” sei troppo pragmatico?

E’ chiaro che un orizzonte utopico – tu cammini e cammini, navighi e navighi, ma la terra è rotonda non ci arrivi mai – è parte dell’uomo. Conosco il percorso storico della parola “utopia” dal 1400 in avanti, ma in qualche modo le parole decadono, si confondono quando vengono pronunciate tante volte si perde poi il senso. Una volta alla Festa nazionale de l’Unità a Bologna mi hanno chiesto se ero comunista. Io non sapevo cosa rispondere, perché è una parola che non ha una connotazione condivisa su cui ci possiamo intenderci e quindi ho dovuto cercare delle perifrasi. Ma nel padiglione a fianco c’era in contemporanea un incontro con Brunetta, mi arrivava l’eco delle sue parole, ricordo di aver pensato “forse sono davvero comunista”.

Veniamo ai Cccp e al tuo rapporto con Giovanni Lindo Ferretti. Al tempo della vostra spaccatura, metà anni duemila, anche per la deriva cattolica, la canzone dedicata a papa Wojtyla al concerto al Villaggio Globale a Roma fino alla comparsata ad Atreju con Giorgia Meloni di Ferretti, tu per chi vi ha amato come gruppo, hai impersonificato la parte sinistra, la coerenza. Oggi che in qualche modo le vostre strade si riuniscono a vent’anni di distanza – un tempo infinito per l’evoluzione dei rapporti – come vi siete ritrovati? Molti contestano questa vostra “reunion” sebbene limitata a una mostra fotografica e non a nuova musica.

Per me quello fu un distacco dolorosissimo. Il mio mondo andava a crollare, ho rischiato letteralmente di annegare per un buon numero d’anni. Non è un caso che il primo album che ho pubblicato si chiamasse “Sorella sconfitta”, il secondo “L’inerme è l’imbattibile”. L’unica àncora di salvezza che ho trovato è stata quella di indagare il crollo e inermità del mondo per non ripiegarmi sul mio. E’ stata veramente una salvezza. Però no, è tutt’altro che artificioso ritrovarsi con una persona come Giovanni, con una storia come quella dei CCCP: è una avvicinamento che nasce da una sincerità assoluta, altrimenti non avrebbe alcun senso. Nessuno di noi ha bisogno di riagganciarsi a quella storia, né per motivi economici, né per soddisfazione artistica. Non ci sarebbe motivo. Anzi, non vedo l’ora di fuggire via perché ho bisogno di scrivere i miei libri, le mie canzoni. Però innanzitutto è una soddisfazione a livello umano: dimostrare che si può chiudere il cerchio anche partendo da poli opposti. Poi ricordo perfettamente che quando ci siamo conosciuti a Berlino nell’81 non ho mai chiesto a Giovanni che cosa votasse, che cosa pensasse. In qualche modo era un intendersi dato per scontato tra persone che viaggiavano e si incontravano. Quello che importava era la percezione di poter costruire finalmente qualcosa con qualcuno. I CCCP sono sempre stati una somma di contrapposizioni, di lotte, di tensioni, un mettere insieme ciò che non può essere messo insieme e credo che continueremo in questo modo con questa complessità. Questo mi piace molto perché mi obbliga a pensare, a ridefinirmi continuamente.

In questi vent’anni chi è cambiato di più? Tu hai fatto un percorso – testimoniato anche dai tuoi libri e dalle tue canzoni – politicamente coerente. Lui si è autodefinito “Un reduce” e, spero per aver rischiato più volte la vita nella malattia, si è avvicinato a papa Ratzinger. Vi siete ritrovati arricchiti entrambi o, mettendola in termini brutali, si potrebbe considerare un compromesso storico?

Sono profondamente grato a Giovanni, che ha cambiato la mia vita una volta per tutte. Se ho imparato a scrivere è stato ascoltandolo, se ho imparato a pensare in maniera personale è stato anche grazie a lui. Io non parlavo mai, meno che mai avevo cantato in vita mia. Se questo è cambiato, lo devo al dolore profondo che mi ha causato la rottura con lui. Non ho altro che parole di gratitudine nonostante tutto e sono molto felice di averlo ritrovato. Per quanto riguarda me, riconosco la novità in quello che sono, e mi sto avvicinando a quello che vorrei essere.

Quanto alla mostra fotografica sui Cccp a Reggio Emilia da ottobre che cosa dobbiamo aspettarci?

Una grande e inaspettata mostra. L’idea è stata abbracciata immediatamente dal Comune di Reggio, dalla Fondazione Palazzo Magnani, siamo molto riconoscenti per questo abbracciare la nostra storia da parte della città: ci ha molto sorpreso. La mostra sarà molto grande e andrà al di là dei CCCP, metterà in scena anche il mondo che ci ha generato come gruppo, non possiamo altro che essere felici e aspettare che arrivi ottobre velocemente; stiamo lavorando come dei matti per metterla insieme ed è tempo di arrivare alla fine.

C’è un’esperienza che avete vissuto assieme con Giovanni Lindo Ferretti: il viaggio in Mongolia da cui nasce Tabula Rasa Elettrificata e un tuo libro. Distese infinite, riflessioni cosmiche che entrano in qualche modo anche rispetto a quello che dicevi prima.

La Mongolia assale tutti i tuoi sensi. Non siamo abituati a spazi di quella vastità, che ti riallineano con una idea mondo così arcaica. La Mongolia rurale vive con le stesse modalità da secoli, non così lontane da quelle che praticavano i miei bisnonni, quegli avi che hanno sempre vissuto in un paese di montagna con i loro animali. E’ stato un po’ recuperare quella dimensione e cercare di farla mia. Un modo per innalzare lo sguardo, perché abbiamo una vita che giudichiamo breve, ma in realtà spesso è molto lunga, fortunatamente, e ci obbliga a pensare al di là della contingenza umana. Ti obbliga a legarti ai luoghi. Sono profondamente innamorato dei luoghi in cui vivo da sempre. Non mi vedrei in nessun’altra parte del mondo. Credo che questa sia una fortuna, sapere che la mia famiglia ha vissuto per 500 anni nello stesso piccolo borgo di montagna mi rende uno di loro e mi dà l’opportunità di vivere tramite loro per secoli e secoli, perché mi incoraggia a pensare come anello di una catena. La Mongolia ti aiuta in questa cognizione, perché ti astrae dal mondo e dalle cose che si presumono importanti e invece sono nullità.

Uno dei grandi problemi che abbiamo anche noi tutti i giorni è che i quotidiani cartacei ormai vengono letti in gran parte da un pubblico sempre più anziano. Il salto generazionale è uguale anche nel fruire della musica: un adolescente che trova per caso qualche pezzo dei CCCP o dei C.S.I. e inizia ad ascoltarlo. Se tu dovessi spiegare loro qual era il vostro modo di approcciarsi alla musica in generale e se vuoi anche alla politica, alla società, che parole useresti?

Mi capita spesso di doverlo fare. E mi è abbastanza facile esporre le mie ragioni di allora, che in qualche modo sono ragioni che in tanti hanno percorso: l’affrancamento dalla famiglia, il capire che il mondo è una creatura complessa e che si può anche non far parte del mondo con le modalità che la maggior parte delle persone ritiene di dover seguire; non accontentarsi di questo ciclo spaventoso di consumo, di espansione continua, c’è tanto altro che si può ricercare per dare una dimensione alta alla nostra vita. Quanto ai giornali, confesso di non riuscire a leggerli. Leggo Il manifesto e leggo Il Post perché me li sono trovati sul telefono, mi è comodo e li leggo anche volentieri: più Il manifesto che il Post, devo dire. Faccio fatica a leggere perché mi sento travolto da una quantità di informazioni che non mi aiutano a capire il mondo, in qualche modo me lo confondono. Ho bisogno di storie lunghe, lunghissime, che percorrono il tempo senza limitarsi a quello che accade oggi. Durante il lockdown del Covid ho ripreso a leggere dopo tanti anni l’Odissea e l’Iliade, testi che in maniera profondissima contengono tutto ciò che consegue. Se hai una guida come Simone Weil, ad esempio, se leggi l’Iliade dopo aver letto il suo saggio sull’uso della forza, ricevi una cognizione del mondo molto più profonda, eterna di quello che qualunque giornale o radio o web possa mai raccontarti. Ho bisogno di questo genere di narrazione. Capisco l’importanza della memoria, ma amo di più l’epica della memoria: credi sia necessario fare della memoria un’epica perché c’è bisogno di innalzarla, senza rinchiuderla in discorsi che hanno a che fare solamente con il lato storico. C’è bisogno di guardare dall’alto quello che accade, senza dimenticare che noi stiamo costruendo la memoria di domani. Credo che questa sia un’istanza politica.

Prendendo spunto dall’episodio che tu racconti all’inizio “La trionferà”, questo bellissimo dibattito al funerale fra il prete e l’ateo, tu ci vedi una continuità rispetto a quello che stai sostenendo? C’è una “via emiliana” nel dare importanza alla politica? In questo momento il tema ecologista della battaglia contro il cambiamento climatico, anche per la recente alluvione? C’è un filo rosso che parte da quel dibattito e può arrivare a una visione anche maggioritaria nel futuro per la battaglia per salvare il pianeta?

Sono molto sensibile a queste tematiche, in cui trovo il centro a cui dobbiamo mirare. Qualche anno fa mi sono trovato su una collina meravigliosa di Asti a leggere un libro e a chiedere al pubblico: “Ma come avete fatto a salvare questa zona mentre noi in Emilia non ci siamo riusciti?”. Uno spettatore si è alzato e mi ha detto: “Guardi che da voi c’erano i comunisti!”. Mi ha gelato, confermando quanto in realtà la sinistra sia lontanissima da questi temi. Ora vedo attorno a me una regione devastata e, pur amandola profondamente, considero quasi un’offesa personale ogni nuova strada che viene inaugurata, Nessuno pensa di diminuire il livello dei consumi, di limitare il numero delle auto, di spegnere le lampadine. Non è tollerabile non tener conto che il mondo non può essere governato con queste modalità, non possiamo avere il mito della crescita continua. Dobbiamo veramente reinventare una cultura e affrancarci da quello che è stato il grande sogno del Novecento, quello di dare a tutti il benessere a qualunque costo; un sogno sacrosanto per chi veniva dalla guerra, da una povertà totale, quasi feudale. Ora non possiamo più permettercelo. Abbiamo le competenze e l’intelligenza per doverlo fare. Quando in futuro si parlerà di memorie, chi penserà a noi non ci assolverà.

Però tu dicevi prima che hai un certo ottimismo sia rispetto al tuo percorso terreno che rispetto alle prossime generazioni. E così o ho percepito male?

Credo che sarà obbligatorio per le prossime generazioni, se vogliono sopravvivere. Noi qualche modo ce la caveremo, io ho 66 anni, vivo sull’Appennino e con un po’ di fortuna e presunzione posso presupporre quello che mi accadrà. Mia figlia ha 25 anni, le sue parole un po’ di tempo fa sono state: “Avrei pensato a problemi molto seri per il nostro mondo ma non avrei mai pensato di raggiungerli a questa età”. E’ una percezione che i ragazzi hanno ed è sacrosanta. Sappiamo che le cose si muoveranno quando ci sarà una convenienza economica a farle avvenire. Non chiamiamola “economia green”, per cortesia, per come si sta delineando sarà la sostituzione di un danno a un danno. Il cambiamento avverrà quando sarà quotidiano per tutti, e soprattutto quando troveremo la forza di ribaltare un modello di sviluppo ormai insostenibile. Uno dei problema della sinistra è stato quello di assoggettarsi a modelli di vita, di comportamento, di egemonia culturale che non devono appartenerle. Quale può essere il richiamo di una sinistra che usa gli stessi luoghi verbali della destra, risciacquati di verde e un po’ più solidali?

Come risolvere il contrasto fra il pragmatismo – che è stato uno dei tratti principali del modello emiliano nel dopoguerra – rispetto a queste tematiche più alte? Tu hai raccontato come in Emilia è nata la prima cooperativa: un’idea di quel tipo, magari in tutt’altro campo, potrebbe nascere in questa terra feconda di novità e di idealità?

Continuo a considerare l’Emilia come un luogo privilegiato di ingegno, di pragmatismo, assieme a quella grande capacità di sogno che probabilmente c’è stata regalata dalla vicinanza con il Po. Amo molto questo essere emiliano: una frenetica ideologia del lavoro capace di una solidarietà espressa. E amo questa capacità di astrazione che ci rende un popolo di mezzi matti. Ma senza bearci troppo in questo. Ricordiamo la famosa enciclica di Togliatti sull’Emilia rossa e il ceto medio, quando il dirigente del PCI raccontò che l’Emilia la riconosci subito per come la vita pulsa. È ancora vera, una volta erano le frotte in bicicletta, adesso siamo tutti in auto schizzati e nevrotici. C’è un fondo di forza sotterranea che io amo moltissimo, e che vorrei vedere indirizzata meglio. E’ tempo anche di uscire dal clichè di don Camillo e Peppone; quel loro dopoguerra fu un tempo violento, non si scherzava, non si passava dalle mani all’osteria a bere del lambrusco assieme. Siamo un popolo molto violento quando vogliamo esserlo e so che in qualche modo anche dentro di me c’è tutto questo.

Sempre in “La trionferà” parli anche di Cavriago: consiglieresti ancora di fare un salto alla statua di Lenin?

Ho visto così tanti matrimoni davanti a quella statua di Lenin… Tante persone arrivare da tutte le parti d’Italia. Non per curiosità, non per folklore. Perché c’è qualcosa di più profondo che va al di là della figura mitologica e storica di Lenin. Chi va in pellegrinaggio in quel luogo ha in mente un mondo diverso, magari senza sapere che cosa questo voglia dire, senza poterlo definire.

Il 18 luglio sarai in piazza Maggiore a Bologna a tratteggiare con musica e parole la visione dei funerali di Berlinguer.

E’ una serata di grande importanza per me. Quel film mostra la visione dall’alto una moltitudine di un milione e mezzo di persone. Forse l’Italia migliore che si sia mai vista: lavoratori, lacrime sincere, mani, un’antropologia che è scomparsa e che trovo impressionante. Gente capace di guidare un paese perché, ricordiamoci, il paese lo guidano i governi ma lo governano le moltitudini. Questo Arrivederci Berlinguer fa letteralmente piangere senza ritegno – nelle due proiezioni che abbiamo fatto non ho mai visto così tanti adulti piangere – ma non per semplice nostalgia. Con quel funerale è finita l’Italia che conoscevamo. Ed è difficilissimo cantare due canzoni mentre scorrono le immagini di quei funerali, e solo con apprensione ho dovuto cercare le parole per dire quello che volevo dire. Non lo considero uno spettacolo artistico, è una performance, un atto, quasi una terapia.

E del nuovo corso del Pd di Elly Schlein cosa pensi?

Mi sono tenuto così lontano da quel partito, da tutto quello che è avvenuto negli ultimi vent’anni, tanto da sentirlo come una cosa altra da me. Credo che Schlein stia provando a cambiare le cose, con sincerità. Capisco la difficoltà, ha di fronte un apparato che non se ne vuole andare in nessun modo e di cui probabilmente non riusciremo mai a sbarazzarci fino in fondo. Ho conosciuto anche Bonaccini, mi è sembrata una persona più che degna, se pensiamo alle difficoltà che può avere un amministratore. Amministrare questo paese è un’opera da eroi: quando Giorgia Meloni ha stravinto le elezioni io di lei ho pensato banalmente: Povera donna, ma chi glielo fa fare?

Desumo dunque che tu non vedi un pericolo neofascista all’orizzonte…

Al contrario, vedo continuamente un pericolo fascista. Lo vedo sempre anche se non è dipinto di nero. Vedo un pericolo fascista in chiunque sia arrogante, in qualunque gesto di violenza, di supremazia, in qualunque pagliacciata retorica. E’ una parte che detesto profondamente, avendola conosciuto così da vicino, così come detesto tutti questi burattini che pretendono di improvvisare una nuova narrazione della nostra Repubblica. Non confondiamoci, molti italiani sanno che cosa è successo. E se anche ho dovuto ascoltare “le ragioni dei vinti”, come avrebbe detto malamente Pansa, per averli avuti in famiglia, non sono ragioni che intendo accettare. La verità e la ragione non sono qualcosa che viene patteggiato a tavolino. No, non è così. Non facciamoci imbrogliare.

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