«La prima foto è stata uno scatto sfocato di mio padre. Avevo sei anni. In qualche modo, ho sempre saputo che la storia della famiglia italo-ruandese da cui provengo avrebbe avuto un ruolo determinante nel mio lavoro».

Così Marilena Umuhoza Delli individua, in una significativa memoria infantile, la genesi dei suoi molteplici interessi professionali che l’hanno portata nel corso del tempo a scandagliare in profondità la questione afrodiscendente in Italia. Oltre che fotografa, filmaker e conduttrice radiofonica, è anche autrice letteraria, come testimonia la recente uscita del libro Lettera di una madre afrodiscendente alla scuola italiana per conto della editrice People. Al suo attivo, vanta varie nomination ai Grammy’s conseguite grazie a progetti audiovisivi di stampo documentaristico svolti assieme al produttore discografico Ian Brennan. L’immediatezza del messaggio visuale sembra essersi traslata anche nel testo in questione, dove memorie personali e collettive divengono funzionali alla critica costruttiva che l’autrice sottende nel titolo e che bene viene esposta, grazie ad un linguaggio facilmente fruibile.

«Lettera di una madre afrodiscendente alla scuola italiana» in cosa si discosta e quanto ha in comune con i precedenti lavori letterari?
È il mio primo saggio, che fa seguito a un memoir (Razzismo all’italiana) e due romanzi (Negretta; Pizza Mussolini). Tutti parlano dell’esperienza di una donna afrodiscendente italiana. Come con la fotografia, anche con la scrittura ritorno alle radici che diventano ponte tra l’Italia e la meravigliosa pluralità che la contraddistingue. Lettera di una madre afrodiscendente alla scuola italiana parte dalla mia esperienza di insegnante e formatrice di corsi di inclusione, di madre di una settenne afrodiscendente tra i banchi di scuola, nonché di ex studentessa formata e educata proprio tra quei banchi. Nel testo svelo gli stereotipi che si annidano nella scuola, mass media e cultura. E li decostruisco attraverso un approccio decoloniale, antirazzista e intersezionale.

Decolonizzare la scuola è un concetto imponente…
Essere una donna afrodiscendente in Italia vuol dire avere a che fare non solo con il sessismo, ma anche con il razzismo strutturale e il retaggio coloniale, cioè tutti quegli stereotipi che tendono a ipersessualizzare ed a rendere esotici e feticci i corpi femminili neri come il mio. Dalle vignette razziste di Enrico De Seta che rappresentavano donne abissine seminude e «selvagge», a film come Il corpo di Luigi Scattini, passando per la pubblicità delle Morositas con la modella francese Cannelle, o a quella di Layla Cosmetics in cui una donna bianca danza attorniata da ballerini neri nudi coi genitali pixellati, gli stereotipi permeano in modo dannoso e invasivo i mass media e la cultura. E considerato che l’Italia è l’unica ex potenza coloniale a non aver realmente fatto i conti con le proprie responsabilità nel Corno d’Africa, possiamo comprendere perché questo razzismo interiorizzato sia ancora preponderante. Gli stessi libri scolastici, nel tentativo di fare inclusione, finiscono nella stereotipia. Famoso è il caso del testo per le elementari del Gruppo Editoriale Raffaello che nel 2020 fece circolare Le avventure di Leo, fumetto con un alunno nero che pronunciava nel balloon «Io vuole imparare italiano».

Storia, linguaggio, comunicazione: in ognuno di questi ambiti sottolinei l’importanza di un corretto uso del linguaggio.
Le parole danno forma alla realtà, per questo è importante usarle con consapevolezza e rispetto. Specie quando persone di potere, come il ministro Lollobrigida, parlano di «sostituzione etnica» dicendo che «gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada», per ribadire poi che «esiste un’etnia italiana». La scuola e noi tutti, abbiamo la responsabilità di decostruire tali linguaggi razzisti, considerata la multietnicità che ha sempre caratterizzato l’Italia: uno studio condotto da Stanford University, Università di Vienna e La Sapienza, pubblicato nel 2019 dalla rivista Science, dimostra che la Roma imperiale era abitata anche da persone provenienti da Nordafrica e Medio Oriente. Dunque il romano medio probabilmente aveva le più svariate sfumature di pelle. Anche le narrazioni sulle migrazioni in Italia vanno destrutturate: chi arriva dall’Africa viene spesso raccontato come «disperato» e «criminale» pronto a «invaderci». Per fortuna esistono rapporti come l’«African Migration Report», che normalizza la situazione sfatando miti come quello per cui gli africani sono tutti clandestini: sbagliato, il 94% delle persone si muove attraverso canali regolari. Altro mito da confutare è quello per cui le persone dall’Africa si spostano da «Sud» verso «Nord»: la maggioranza si muove all’interno di quel continente. Inoltre l’Africa non è il luogo col più alto numero di migranti: è al terzo posto con il 14%, preceduta dall’Europa con il 24% e dall’Asia con il 41%. Spiegare ai giovani l’universalità delle migrazioni, presenti fin dall’antichità e grazie alle quali la specie umana si è omogeneizzata e l’organizzazione sociale è accelerata, dovrebbe essere un punto di partenza per decostruire il linguaggio xenofobo che orbita intorno a questo tema.

Nel libro parli di come le scuole che hai frequentato nell’età dell’apprendimento fossero prive di una presenza afrodiscendente.
Sono cresciuta senza alcuna rappresentazione, come scrivo nel testo: «Vent’anni di scuola e non una pagina che mi rispecchiasse, non un autore o un personaggio di origini africane a ispirarmi e a cui aggrapparmi». La prima volta che parlarono di persone come me, afrodiscendenti, fu quando l’insegnante ci spiegò la tratta degli schiavi. Vedermi tra le pagine di un libro di scuola sotto le sembianze di una schiava, in catene, fu traumatizzante. Eppure le persone afrodiscendenti sono state un tassello prezioso sia nella storia dell’Impero romano che per l’Italia odierna. Ad esempio Caracalla, che ricordiamo essere di origine berbera, estese la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero. Tre papi nordafricani sono saliti sullo scranno di San Pietro. Per non dimenticare poi figure più recenti come Andrea Aguyar, uruguaiano nero e braccio destro di Garibaldi e l’italo-eritreo Domenico Mondelli, considerato il primo aviatore nero della storia e plurudecorato. Dalla Resistenza arriva poi la vicenda della partigiana afrodiscendente Menen Abegasc, membro della Banda Mario e sfuggita all’ultimo zoo umano italiano all’interno dell’Esposizione delle Terre d’Oltremare a Napoli, nel 1940. Per tutto ciò, ho deciso di aprire il testo con la frase «Ogni volta che scegliamo un libro, decidiamo a chi dare voce»: realizziamo un atto politico. È importante valutare bene a chi dare spazio e visibilità.

Meglio a una donna, ancor meglio se economicamente svantaggiata, razzializzata o con disabilità, o ad un esponente della comunità LGBTQIA+. E le donne, come rivela l’Osservatorio Vox, sono state il target numero uno nel 2022 dei tweet d’odio (il 43,21%). Sono anche la categoria più vulnerabile di questo paese, dove i tassi di omicidio sono tra i più bassi d’Europa, mentre i femminicidi sono in aumento. Giulia Cecchettin è stata la vittima centocinque del 2023. In un paese che non dà priorità alla lotta contro la violenza di genere diventa necessaria una «rivoluzione culturale» (per usare le parole di Elena, sorella di Giulia Cecchettin). Perché quando un individuo, a maggior ragione un insegnante, prende in mano un libro, compie un atto politico e contribuisce a una piccola grande rivoluzione.