«Per me la lettura è sempre in rapporto con l’immagine» afferma Maria Guidone. Un concetto quanto mai appropriato per il suo ultimo cortometraggio, Albertine where are you?, presentato alla Settimana della critica a Venezia. Classe 1979, una carriera come regista pubblicitaria, Guidone si è lasciata trasportare dalle parole di Proust e della Recherche. In particolare, è la figura di Albertine – selvaggia, inafferrabile, leggera come una piuma – ad incarnare un discorso profondo sull’impossibilità dell’amore inteso come possesso, e sulla libertà di essere ciò che si è come unico senso, seppur fugace, della vita. «Si ama solamente ciò in cui si persegue qualcosa d’inaccessibile, quel che non si possiede»: la celebre frase dello scrittore, citata nel finale, è una condanna che si materializza nelle immagini girate in 16mm, in una Puglia trasfigurata con colori pastello. Il filo che segue Guidone è quello della «trasposizione» che Proust operò, cedendo alla figura fittizia di Albertine i caratteri del suo vero amante, l’autista e pilota Alfred Agostinelli. Una relazione omosessuale allora inconfessabile diventa qui la chiave per un gioco che coinvolge ruoli e identità, in un continuo rimando tra il libro, la realtà, il film e l’ambiguità di cui la vita è espressione.

Riportando in superficie Alfred Agostinelli e una questione di genere già presente in Proust ma parzialmente celata, compi un’operazione quasi archeologica. Quale esigenza ti ha spinto su questa strada?

Quando ho letto per la prima volta la Recherche non sapevo della teoria, ormai praticamente accertata, secondo cui la figura di Albertine nasconde quella di Agostinelli. La scoperta, avvenuta durante il lockdown, ha scatenato la mia fantasia, infatti vedo questo film quasi come un lavoro di fantascienza. È come se Marcel, il protagonista del romanzo, rivivesse oggi e non avesse bisogno di mascherare Alfred, che può finalmente riprendersi il suo posto. In effetti Albertine fugge, anche nel libro, forse proprio perché sa di non essere il vero oggetto del desiderio, non si riconosce in quanto è maschera di un’altra identità. Si crea poi tra i due un rapporto ambivalente del tipo schiavo-padrone, il protagonista vuole far credere di amare smisuratamente Albertine ma in realtà c’è sempre un distacco, un’ironia, come se il vero amore fosse solo per se stessi o per le proprie proiezioni. Comunque, credo molto nel potere «queer» della letteratura, che ci fa uscire dai nostri limiti per riconoscerci in altro. È stato questo il motore del film: il protagonista, attraverso la lettura, può finalmente liberarsi dalle finzioni del passato.

Albertine è molto affascinante nella sua indecidibilità, emerge dalle tue inquadrature un grande amore per questa figura. Come l’hai affrontata ad un livello filmico?

È stato molto fortunato l’incontro con Anna Coccoli, con la sua bellezza un po’ punk. Abbiamo lavorato molto sui movimenti e sulla gestualità, per evocare un corpo che si mimetizzasse nel reale e che sfuggisse sempre. Si trasforma in una pianta, o nel vento… Albertine bluffa, dorme o finge di dormire per non farsi interamente possedere dal controllo ossessivo del protagonista.

Inquadri spesso Marcel leggere la «Recherche» e alcune pagine con delle frasi sottolineate.

Filmare le pagine mi piace molto, il libro non è solo un tramite ma anche un oggetto, in un gioco di intersezioni tra linguaggi. Volevo dare alle immagini la stessa qualità materica della carta, per questo ho deciso di girare in pellicola. Mi sono però messa al lavoro senza rileggere la Recherche ma affidandomi al ricordo di una lettura di molti anni fa, in modo da essere più libera.