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«Maria», canto di diva fragile nello schermo che ingabbia

«Maria», canto di diva fragile nello schermo che ingabbiaAngelina Jolie in «Maria»

Venezia 81 In concorso il nuovo film di Pablo Larraín. L’ultima settimana di vita della Callas, la fama, il rapporto con Onassis e la ricerca d’evasione. Accanto a Angelina Jolie nel ruolo della protagonista, Pierfrancesco Favino, Valeria Golino e Alba Rohrwacher

Pubblicato circa un mese faEdizione del 30 agosto 2024

Maria. Prima della voce ci sono le labbra gonfissime di Angelina Jolie, sembra di vederle riflesse sul marmo accecante nel sole del cambiamento climatico mentre la ragazzina giapponese si scatta un selfie accanto alla fotografia dell’attrice. Maria è il nuovo «capitolo» che Pablo Larraín dedica alle «donne iconiche» del Novecento dopo Jackie Onassis (Jackie, 2016) e Lady Diana (Spencer, 2021), tutti proposti qui al Lido peraltro, più per appiattirle però che per esaltarle, rinchiudendole in nuove gabbie di un brutto cinema che pare pensato apposta per la mortificazione. Valeva per la spaesata Jacqueline Kennedy, chiusa nella sua casa dopo l’omicidio del marito, e per Diana anche lei prigioniera nella magione reale mentre come una folle passa dalle stanze dei figli futuri sovrani – uno, l’altro ha potuto emigrare nel jet-set losangelino – al rito dei pranzi ufficiali a cui sfugge utilizzando i disturbi alimentari come una privatissima rivolta.

Anche Callas è soffocata in un appartamento di lusso a Parigi, con lei c’è l’ormai inutilizzato pianoforte, ci sono il maggiordomo e la domestica fedelissimi Ferruccio e Bruna che le hanno dedicato l’esistenza (Piefrancesco Favino e Alba Rohrwacher entrambi piuttosto fuori parte), e i due barboncini che mangiano il suo cibo perché lei ormai non mangia più. Siamo nel 1977, Anna Maria Cecilia Sofia divenuta Callas dopo che il padre emigrato dalla Grecia a New York, dove era nata nel 1923, aveva cambiato il cognome, muore il 16 settembre di quell’anno, Larraín costruisce la sua narrazione a ritroso in quella che è l’ultima settimana della sua vita, quando «La Callas» è ormai scomparsa dalle scene, ha poco più di cinquant’anni ma sembra avere vissuto tutto: magrissima e lontana nel suo mondo popolato da presenze del passato, i vestiti di scena bruciati, il Mandrox (più noto come Qualuude) inghiottito in grandi dosi compagno amatissimo delle giornate – si disse che era stato una della cause di perdita della voce e della morte dichiarata per arresto cardiaco.

È qui dunque che la colloca il regista cileno, stesso procedimento che con le altre colte nella fragilità esistenziale, Jackie la morte del marito, Lady D la rottura con la corte, per ripercorrerne in una serie di atti il melodramma della vita. Tutto è vero e tutto è immaginato, siamo nella testa della donna, ciò che vediamo è il «film» delle sue paranoie e della sua dolorosa inquietudine, il cui giovanissimo regista che somiglia al personaggio del ragazzo di La Luna di Bertolucci – quanto farebbe bene a Larraín rivederlo, imparare un po’ di sentimento specie con la pretesa arrogante di confrontarsi col melò – si chiama proprio Mandrax. Devo dire «La Callas» o «Maria» le chiede o si chiede lei stessa nella sua allucinazione? Che è la linea su cui orchestra il proprio movimento Larraín, sulla sceneggiatura di Steven Knight, dalle prime sequenze in stile filmini d’epoca con Callas/Jolie che aprono Maria alle immagini finali in cui appare la «vera» Callas.

E NEL MEZZO? Pubblico e privato, palco e vita, nella testa del personaggio scorrono paralleli fra segreti e copertine patinate, amori e dolori, e solo lì si toccano, la realtà sfugge, ha contorni ambigui, esiste, non esiste, è solo un’allucinazione, Time in qualuudes and red wine.
Maria è nelle immagini in bianco e nero, Atene sporca e povera nella guerra, quella ragazzina con voce di incanto «venduta» ai soldati tedeschi prima di tornare a New York, dove era nata e dove l’aspettava il padre. La sorella (qui è Valeria Golino mai vista diretta con tanta poca simpatia) e la madre odiatissima. E soprattutto Ari, Aristotele Onassis, l’armatore greco, brutto si definisce e volgare ma ricco che quando vuole qualcosa se la prende anche se è proibito, vale per quell’Hermes rubato all’archeologia che tiene in camera da letto sul suo yatch – un po’ collezione di farfalle di lusso – e vale per lei. Che lascerà il marito, il discreto e fedelissimo Meneghini per Onassis patriarcale e possessivo che mal sopporta il suo successo. E che non la sposerà mai preferendole proprio Jackie mentre Maria incontra in una insensatissima scena Kennedy al caffè.

E «LA CALLAS» invece? Sono i successi, i teatri, gli applausi, il pubblico adorante, la carriera di un’artista che reinventò la figura della cantante lirica portandola nella cultura popolare dell’epoca, protagonista di ogni rivista, riferimento di stile con la sua magrezza conquistata a rischio della voce. In questo allez-retour Pasolini non c’è, eppure fu un incontro molto importante, come la loro Medea (1969), lei che aveva fatto risorgere quella di Cherubini. Perché?

Non c’è neppure nulla delle amicizie, degli incontri intellettuali, di ciò che la rese Maria Callas anche oltre il proprio tempo. I vagabondaggi per Parigi del personaggio tracciano geografie stonate fra bar e alberghi seguendo il destino che l’aspetta: morire su scena, infinite volte Casta Diva, Traviata, Madame Butterfly, nel suo amore e nel dolore – la musica è sofferenza ripete. Archetipo – o stereotipo? – di un femminile, di una star prigioniera della sua fama e dei suoi tormenti, di un melodramma che non sa credere a se stesso.

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