Un memoir costruito intrecciando frammenti, immagini, suoni. Un’autobiografia in forma critica, nelle cui pagine l’immagine della protagonista si staglia attraverso i riflessi che proietta su di lei tutto ciò che ha amato, scoperto, talvolta detestato. Se Negroland (2017) definiva per molti versi la topografia dell’anima di Margo Jefferson, Sistema nervoso in costruzione (pubblicato come il precedente da 66thand2nd, nella straordinaria traduzione di Sara Antonelli, pp. 176, euro 17) ci conduce a condividere in forma ancor più urgente «il romanzo di formazione» della scrittrice e critica letteraria, autrice anche di Su Michael Jackson (66thand2nd, 2019).

La (rivendicata) esperienza della critica afroamericana, postcoloniale e femminista si misura in questo caso con il «canone americano» e, ancor prima, con le sfide e i quesiti con i quali si è cimentata una giovane della buona borghesia nera nel suo percorso di crescita e di ricerca della propria consapevolezza. «Ho passato la vita adulta ad assemblare stili di rabbia femminista nera», spiega Jefferson, aggiungendo come «le mie fonti sono svariate…». Così, squadernate con entusiasmo, vigore e a volte complice garbo, sono molte le figure e le storie che scorrono di fronte a noi attraverso lo sguardo di Jefferson: dalle Tennessee Tigerbelles, quattro ragazzine nere medaglie d’oro alle Olimpiadi nel 1960, alle stelle del jazz e del r’n’b, fino a Dante e Fitzgerald, Stevenson e Silvia Plath.

Margo Jefferson – che presenterà il suo memoir domani a Roma a Più libri più liberi (ore 13, Arena Repubblica-Robinson con Raffaella De Santis) torna ad indagare con il proprio inimitabile stile l’immaginario e la cultura americani, restituendo ad un tempo una traiettoria di vita e una sorta di bilancio di una stagione e di un mondo.

Nel libro spiega di aver pensato ad un memoir come ad una struttura di pensieri, ricordi, sentimenti, sensazioni e parole ricombinanti. Quest’ultimo termine evoca la genetica; perciò, cosa è nato dalla combinazione di tutti questi diversi elementi?
Per fortuna la «genetica» culturale e artistica è più fluida di quella biologica! Ogni volta che crei un nuovo lavoro (per me, scrivere), stai creando un sistema nervoso alternativo. O una sua versione, una bozza. Le possibilità sono costantemente lì, ogni volta che persegui pienamente – esamini, analizzi, senti – un’esperienza. In questo caso si è trattato di un lavoro di memoria, sentimenti, sensazioni, pensieri e linguaggi che era esistito solo in frammenti non collegati. È una nuova composizione che mi permetterà, mi spingerà a continuare a creare e ricreare la mia vita, il mio temperamento, il mio posto nel mondo.

Tra le figure evocate nel libro, alcune appaiono in apparenza dissonanti: come Nina Simone e Ike Turner. O come la coppia, lei ne parla in parallelo, Sammy Davis Jr. e James Baldwin. Qual è il filo che conduce dall’uno, o dall’una, all’altro?
Tra Nina Simone e Ike Turner, almeno in superficie, si tratta di un’opposizione binaria. Entrambi sono stati estremamente importanti per me e sono entrati nella cultura americana come simboli famosi, persino famigerati, della musica nera, dell’intrattenimento nero, del potere nero e del pericolo nero. La brillante Nina Simone aveva un lato demoniaco e ostile quanto quello di Ike Turner. Il meschino Turner ha avuto un ruolo nella storia della musica che meritava di essere onorato. Ognuno di loro ha condotto fino in fondo la propria sfida ed è stato punito dai cliché limitanti della razza e del genere. Volevo esporre i grumi di sentimenti contraddittori che sono dentro di me, trovare un modo per riconoscerli tutti, compresi quelli che mi hanno messo in imbarazzo. Quanto al brano dedicato a Sammy Davis, Jr. e a James Baldwin, ha preso forma come un’improvvisazione. Sono rimasta colpita dalla loro precocità. Erano degli autentici prodigi culturali neri in un’epoca in cui i diritti civili erano ancora legati alla politica della «rispettabilità» che si proponeva di dimostrare che noi neri potevamo essere bravi quanto i bianchi: «all’altezza» della loro cultura. Sammy Davis, Jr. e James Baldwin hanno lavorato per tutta la loro vita non solo per essere delle figure importanti, ma per rappresentare le conquiste dei neri, il loro successo e il loro fallimento sociale e politico. In effetti, il loro talento era così evidente che minacciavano di far sentire inferiori i bianchi.

Si interroga a più riprese su quanto «l’estasi nei confronti dell’essere bianchi» – ne parla a proposito di Willa Cather, autrice de «Il canto dell’allodola» – sia parte integrante del canone americano. Qual è la risposta?
Che questa «estasi della whiteness» ne è ancora parte integrante. Del resto, il rovescio della medaglia dell’estasi bianca è la supremazia bianca. E tutto ciò è sempre stato parte integrante della vita americana: politica, cultura, religione, sport, media, arte. E l’arte vi si immerge ed estetizza i bisogni più grezzi. Gli Stati Uniti hanno ancora un forte desiderio di usare la razza, il bianco, come un modo per esaltarsi e scagionarsi. Politicamente, socialmente, culturalmente, esteticamente. Ora, grazie alla presenza di scrittori, studiosi e critici multiculturali, ci sono molte altre estasi – razziali, etniche, di genere – da sperimentare. E da esaminare. L’«estasi dell’esser bianchi» non può più darsi per scontata: ora deve sperimentare l’insicurezza, l’incertezza, la curiosità, la molteplicità.

L’ambiguo rapporto tra classe, genere e razza attraversa il libro dalla sua esperienza di ragazzina messa «al riparo» dal razzismo dalla propria condizione sociale, per finire a casi come quello di Condoleezza Rice, cresciuta dai genitori con la convinzione di «poter diventare presidente degli Usa». Come si intrecciano questi elementi?
Ambiguità così basilari non si risolvono mai. Si lavora su come dirigere e interpretare queste contraddizioni permanenti tra diversi elementi. Rice ha scelto di interpretare le convinzioni e gli insegnamenti dei suoi genitori in un modo interamente diretto al raggiungimento del potere politico capitalista conservatore. Angela Davis, che proveniva dallo stesso mondo, scelse il contrario: una visione e una pratica politica radicate nelle convinzioni marxiste radicali. Personalmente, ne ho scelto un terzo, fondato sulla critica culturale. Sono mossa dalla ricerca su come analizzare e agire sulle complessità – privilegi, discriminazioni, tentazioni, opportunità – dell’educazione che ho ricevuto. Cerco la coerenza senza autocelebrazioni o semplificazioni.

Le pagine dedicate ad Ella Fitzgerald, l’accento posto sul suo sudare durante i concerti, evocano un elemento che attraversa il libro, vale a dire la percezione dei corpi neri nella cultura americana, ma anche tra gli stessi afroamericani. Una sottolineatura non casuale…
I corpi neri – il loro colore, la loro anatomia, i loro poteri, i loro usi, le loro relazioni con i corpi bianchi – sono un’ossessione della storia, dell’ideologia e della mitologia della razza bianca americana. Se hai un corpo nero, uno dei modi in cui lo vedi è attraverso la lente del giudizio bianco. È tutt’intorno a te, è centrale nei canoni della cultura popolare come di quella alta. Se hai il corpo nero di una donna, ti viene insegnato a vederlo e ad adattarlo agli standard di desiderabilità della femminilità bianca borghese. E il sudore di una donna non è desiderabile secondo questi standard. Ella Fitzgerald ha usato il suo genio per sconfiggere queste mitologie punitive e costrittive. Per onorarla, ho dovuto svelare come sono stata segnata anch’io da tutto ciò e come, da critica e ascoltatrice, ho trovato la mia strada verso una sorta di libertà. Non uguale alla sua, ma simile alla sua: un omaggio a quella che lei ha raggiunto.

Su Josephine Baker scrive che «ha plasmato il mondo seguendo il proprio volere» perché, a differenza di molte «persone di colore» che hanno una personalità per i bianchi e una per sé, «i mutamenti della sua personalità erano dettati dall’ego, dalle circostanze, dall’istinto, dal fervore e dalla strategia». In che modo «ha anticipato il nostro modo di vivere qui e ora»?
Le «persone di colore» stanno superando ora le definizioni fisse di cosa significhi essere nero, latino, asiatico, indigeno o Lgbtq. Abbiamo identità multiple che si intersecano in molti modi e il potere di modellare queste intersezioni, non solo per combattere le discriminazioni, ma per definire noi stessi. Josephine Baker è un grande esempio di questo tipo di coraggio e immaginazione. È stata ballerina e cantante, attivista politica in Francia e negli Stati Uniti e genitore. Sì, a volte ha vacillato (era, ad esempio, un’attivista migliore di quanto fosse genitore), ma non si è mai tirata indietro o ha ceduto alle regole degli altri su ciò che avrebbe dovuto fare e avrebbe potuto essere. Come persone di colore, abbiamo bisogno di quell’inventiva, di quel coraggio e di quella versatilità

Lei cita W.E.B. Du Bois che al termine di «Anime del popolo nero», esortava gli afroamericani a «strappare il velo» che fa sì che ci si guardi attraverso gli occhi degli altri, senza che nel mondo plasmato dai bianchi si possa avere una vera coscienza di sé. Un testo scritto nel 1903 che è ancora attuale?
Il lavoro di Du Bois appartiene ancora incredibilmente al nostro tempo. È essenziale, non solo rilevante. Del resto, cosa c’è di diverso? La storia delle lotte dei neri fin dal 1903 ha reso più possibile, realizzabile e disponibile la coscienza di sé. Adesso abbiamo le nostre narrazioni e ogni generazione le espande un po’ di più. Ma la doppia coscienza di cui parlava Du Bois resta per noi una sfida fondamentale. E lo sarà finché esisterà il razzismo. Vale anche la pena aggiungere che la presenza e il crescente potere di altri popoli non bianchi rendono la coscienza nera ancora più stratificata e potente. È qualcosa di cui mi rallegro.