Alla fine di agosto del 1970 Margaret Mead e James Baldwin si incontrarono a New York per una conversazione, in tre diverse sessioni, sul tema della «linea del colore», della razza e del razzismo nella società americana. Godevano già, entrambi, di una certa fama. Mead era la più celebre antropologa americana: all’epoca quasi settantenne, era erede della scuola di Franz Boas ed emblema di una scienza sociale antirazzista e impegnata nel rispetto delle diversità culturali. Baldwin, afro-americano, a quarantacinque anni era considerato uno dei maggiori scrittori statunitensi, e rappresentava una figura pubblica di rilievo nell’ambito dei movimenti di protesta e delle lotte per i diritti civili dei neri. Il loro incontro, registrato e trasmesso sui media (spezzoni dell’audio originale sono oggi facilmente reperibili in rete), venne pubblicato l’anno dopo col titolo A rap on race. Ne uscì una tempestiva traduzione italiana presso Rizzoli (1973), ma rimase pressoché dimenticato per cinquant’anni. Oggi Meltemi lo ripropone con il titolo Discussione sulla razza Come sciogliere i nodi su storia, culture e razzismi (nella vecchia traduzione di Vincenzo Mantovani, con Introduzione di Stefano De Matteis, pp. 239, € 18,00).

È un testo bizzarro e inusuale, in cui i due parlano a ruota libera, senza alcuna preparazione. Un recensore americano dell’epoca stroncò il libro definendolo come un dialogo da bancone del bar, e lamentando la banalità e genericità di molti passaggi del testo – insieme a una tendenza a rifugiarsi in pose estetiche – soprattutto da parte di Baldwin, che di fronte all’incalzare argomentativo di Mead se la cava spesso evocando la sua «rabbia» e il fatto di «essere un poeta».

Inizialmente molto prudente e ondivago, il dialogo stenta a trovare il giusto codice comunicativo, ma poi fa emergere alcuni nodi importanti, che aiutano a capire non solo il contesto di quegli anni, ma anche la successiva evoluzione della questione «razziale» in America. Baldwin parla dal punto di vista del Black Power, insistendo sul fatto che il razzismo nella società e nella storia americana è tanto radicato che a superarlo non basta la fine delle discriminazioni formali. Come per Fanon, la tossicità del razzismo ha invaso anche le stesse soggettività dei neri, incluse le generazioni più giovani, per le quali proprio il contrasto fra libertà formale e oppressione sostanziale e simbolica è all’origine di una inesauribile «rabbia e disperazione».

Poche concessioni
La posizione di Margaret Mead è più moderata, liberale e progressista. Comincia col concedere un punto al suo interlocutore. Quando ero giovane, afferma, credevo nell’integrazione e pensavo che si dovesse «ignorare la razza». Ma ora, aggiunge, sono dovuta passare «dalla semplice difesa dell’integrazione al significato del black power». Un buon modo di concettualizzare la differenza fra la prima ondata di movimenti per i diritti dei neri in America, rivolta a ottenere diritti formali, e la seconda finalizzata a smascherare le disuguaglianze sostanziali, implicite, incorporate. Da qui in poi, l’antropologa concede ben poco al suo interlocutore: gli rimprovera, intanto, l’eccessiva tendenza a ridurre alla dicotomia bianco/nero ogni altra differenza, ignorando quindi le discriminazioni e le sofferenze subite su base razziale, per esempio, dagli Indiani d’America o da altri gruppi immigrati, come gli italiani, gli irlandesi o gli ebrei. Inoltre, Mead rinfaccia a Baldwin la sua concezione di una troppo rigida identità nera, costruita coltivando le presunte incommensurabili differenze e dimenticando che gli afroamericani sono nondimeno americani.

Accuse allo scrittore
Dell’identità ci si comincia a preoccupare quando la si sta perdendo, osserva. Alle preoccupazioni identitarie si lega un antioccidentalismo indiscriminato e contraddittorio: Baldwin viene accusato di dimenticare «quella parte della tradizione occidentale dalla quale… sono scaturiti l’impeto verso la pace e la fratellanza». Infine, l’antropologa – da una coerente posizione kantiana – attacca il romanziere sul problema della responsabilità: se essa è individuale, non si può chiedere a una generazione di espiare (per di più collettivamente) i delitti di un’altra.

Non solo Baldwin non riesce a contrastare efficacemente la sua interlocutrice, ma non è nemmeno detto che ne comprenda fino in fondo la logica. Controbatte spostando costantemente il discorso sulle proprie esperienze personali e sul piano emozionale; ma le questioni dell’identità e della colpa sono cruciali anche per dare forma al futuro. Se si assume l’esistenza di identità fissate una volta per tutte che continuano a rinfacciarsi responsabilità morali generazione dopo generazione, allora, dice Mead, «non c’è più speranza». Alla fine dell’ultima conversazione, Baldwin dice che ogni speranza per lui è finita «quanto Martin è stato assassinato». Ma questo implicherebbe il fatto che i movimenti per i diritti civili, da allora in poi, hanno seguito le linee di una pura dialettica negativa.

Verso la terza ondata
Cosa ci dice, allora, questo dibattito sui movimenti di oggi, quelli della «terza ondata» come Black Lives Matter? Il loro focus è sul razzismo sistemico o strutturale, termine che ancora non si usava negli anni Settanta. L’indirizzo identitario è stato però condotto fino alle sue estreme conseguenze, e così il tema della responsabilità, trasformato nel concetto di «fragilità bianca» e trasportato in una più ampia dimensione intersezionale. Oggi, in un clima dominato da costanti accuse di microaggressioni, appropriazione culturale, infrazioni ai codici della correttezza politica, questo dibattito sarebbe improbabile. E certamente lo stesso Baldwin, scomparso nel 1987, si stupirebbe nell’apprendere che i suoi eredi considerano una microaggressione razzista (in quanto espressione di color blindness, o indifferenza al colore) la frase – per lui come per Mead evidentemente scontata – con cui apriva la terza parte del libro: «Noi siamo la razza umana. In fondo ce n’è una sola, no?».