Si balla al ritmo caraibico della pachanga, così in voga negli anni Sessanta anche in Africa Occidentale, mettendo su un LP del portoricano Tito Rodríguez con la sua orchestra, oppure il più melodico El «Ray» Criollo di Ray Barretto e Charanga Pachanga del «re della salsa» Pablo Tito Rodríguez Lozada.

Malick Sidibé
Ma è la passione per il twist ad impazzare veramente nelle sale da ballo di Bamako, come ricorda il regista francese Robert Guédiguian nel film Twist à Bamako (2021), dichiarato omaggio a Malick Sidibé (Soloba, Mali 1936-Bamako 2016) e alle sue fotografie che trasmettono la più autentica «joie de vivre».

Una vitalità che è lo specchio dei tempi – dall’indipendenza dalla Francia, nel 1960, ad un’ipotesi di governo all’insegna del socialismo reale (poi naufragato) – che, nelle immagini in bianco e nero del fotografo, si traduce in una contagiosa euforia nata dalla condivisione di valori e, in particolare, dell’esuberanza della giovinezza. I costumi sociali sono evidentemente cambiati: nella sezione dedicata al suo lavoro, nel percorso della mostra Ritratti Africani. Seydou Keïta, Malick Sidibé, Samuel Fosso, curata da Filippo Maggia al Magazzino delle Idee di Trieste (fino all’11 giugno 2023), vediamo giovani coppie abbracciarsi sulle rive del Niger, improvvisare picnic sulla strada polverosa, in posa durante una festa famigliare, «assonnati dopo una festa impegnativa» (come indica il titolo della foto del ’63) o magari in gruppo, come quelle ragazze che indossano quasi tutte lo stesso abito di tessuto stampato e mostrano sorridendo gli album dei musicisti più in voga. C’è poi chi, come Mademoiselle Ouman Doumbia, si fa ritrarre in studio, davanti al fondale dipinto, mentre finge di guidare una vera Vespa: siamo nel 1973. Di motorini e motociclette ne sono entrati parecchi nella sala posa dello Studio Malick, che Sidibé (primo artista africano a ricevere il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2007) aveva aperto nel 1962 nel quartiere popolare Bagadadji a Bamako.

«All’epoca era anche un modo per far vedere che si aveva una mentalità aperta, di stampo occidentale.» – mi disse nel 2010 quando lo intervistai per il manifesto in occasione della sua personale La vie en rose alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia – «Molti ragazzi si facevano fotografare con la sigaretta, anche se nessuno di loro fumava». Ho anche qualche foto dello Studio Malick che ho scattato nel 2005 a Bamako: Sidibé era all’estero, in giro per mostre, in sua assenza a fare gli onori di casa aveva lasciato tre dei suoi figli (Fousseni, Mody e Karim) e tante scatole di negativi, impilate una sull’altra, provini a contatto e stampe moderne (senza tiratura) in parte firmate e vendute per qualche centinaia di euro. Nella sala posa c’era anche il ventilatore con le pale azzurre, vicino al pavimento rialzato a scacchi bianco e nero, perché erano ancora numerosi i clienti che si facevano ritrarre da lui.

La staffetta
«Potremmo azzardare una sorta di staffetta fra i tre artisti: Keïta attivo negli anni che precedono l’indipendenza del Mali (nel 1960), poi Sidibé che vive e racconta gli anni immediatamente successivi all’indipendenza, e infine Fosso, nato nel periodo in cui diversi Paesi africani raggiungono l’indipendenza.» – scrive Filippo Maggia nel catalogo della mostra (Electa) – «Una staffetta che riscontriamo anche nei contenuti delle loro immagini, come se il filo narrativo tracciato da Keïta alla fine degli anni quaranta avesse poi trovato un suo percorso evolutivo che corre di pari passo con la progressiva conquista e manifestazione di una consapevole africanità, segno distintivo rilevabile nei loro ritratti, che non casualmente divengono autoritratti in Fosso».

L’esposizione, prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia raccoglie un centinaio di opere di questi autori provenienti dalle collezioni di C.A.A.C. The Contemporary African Art Collection di Ginevra, galleria Jean Marc Patras di Parigi, Fondazione Modena Arti Visive e Guido Schlinkert. Si tratta prevalentemente di stampe moderne alla gelatina ai sali d’argento ma c’è anche una piccola e preziosa selezione di vintage di Malick Sidibé. Prima di questa mostra le fotografie di Keïta, Sidibé e Fosso erano state esposte insieme solo in occasione di un’esposizione in Svezia e Norvegia (2002-2003) e prima ancora, nel 1997, quando questi grandi maestri vennero invitati a realizzare ritratti e autoritratti per i grandi magazzini Tati in Boulevard de Rochechouart a Parigi. Samuel Fosso (Kumba, Cameroun 1962, vive e lavora tra la Nigeria e la Francia) in quell’occasione realizzò la serie di autoritratti a colori in cui indossa i panni di un capovillaggio africano à la mode (immagine iconica pubblicata anche nella copertina del catalogo di Africa Remix, storica mostra sull’arte contemporanea africana curata nel 2004 da Simon Njami), così come di un rocker, di un pirata, di una donna borghese e anche de La Femme américaine libérée des années 70, omaggio alla forza delle donne afroamericane.

Fosso, omaggio ai grandi
Fotografie che anticipano i successivi «travestimenti» della serie African Spirits (2008), stavolta in bianco e nero, in cui Fosso si raffigura come Angela Davis oppure nei tanti e talvolta controversi leader politici africani, tra loro Hailé Salassié, Patrice Lumumba, Kwame Nkrumah, Nelson Mandela. Per il fotografo è chiara la volontà di «restituire la memoria e rendere omaggio a tutti quei grandi personaggi africani che hanno lottato per la libertà e i diritti civili dei neri, sia afroamericani che africani».

Seydou Keïta
Quanto a Seydou Keïta (Bamako 1921/1923-Parigi 2001), che nel ’48 aveva aperto il suo studio nel nuovo quartiere di Bamako-Coura, si è parlato spesso dell’originalità del suo modo di ritrarre soprattutto le figure femminili con i loro abiti «wax printed» che si mimetizzano con il tessuto usato come fondale (solitamente il suo copriletto che cambiava ogni due o tre anni), come del resto della scoperta del suo lavoro. È stato il curatore francese André Magnin, direttore della Contemporary African Art Collection (creata da Jean Pigozzi), a scoprirlo nel 1991 dopo aver visto a New York la mostra Africa Explores: 20th Century African Art in cui erano esposte cinque vecchie fotografie nella cui didascalia era indicato «Anonimo/Bamako/Mali/anni ‘50». Magnin parlò con Pigozzi e gli disse che, se fosse stato ancora vivo, avrebbe trovato quel fotografo: «comprai un biglietto aereo per il Mali, prenotai un hotel modesto e ingaggiai un autista a cui dissi che voleva incontrare i fotografi della città. Lui mi portò da Malick Sidibé che era l’unico fotografo che lavorava ancora nel suo studio. Gli mostrai le copie delle foto che avevo visto a New York e lui riconobbe immediatamente che erano state scattate da Seydou Keïta e me lo presentò. Nel 1994 organizzai la sua prima mostra alla Fondation Cartier di Parigi: Keïta aprì il suo archivio e potei vedere, una ad una, tutte le sue fotografie.» Indubbiamente la gente indossava i vestiti più belli per farsi ritrarre da lui. «Farsi fare una foto era un evento importante: le persone volevano risultare al meglio. Spesso erano tese, intimidite dalla macchina fotografica.» – egli disse nell’intervista raccolta da Cristiana Perrella e Valentina Bruschi, pubblicata nel catalogo I ka nyì tan. Seydou Keïta e Malick Sidibé fotografi a Bamako (2001) – «Io dicevo loro di rilassarsi e di mettersi in un certo modo, non sbagliavo mai. Riuscivo a farli venire veramente bene. Dicevo I ka nyì tan, che in bambara vuol dire stai bene così, non ti muovere e scattavo».