Un’ex colonia, uno scatolone di sabbia governata poi da un dittatore eccentrico e, infine, il porto di partenza dei barconi verso le coste italiane: è a queste immagini che solitamente viene ridotta la Libia nel nostro paese. Poco, troppo poco per capire una popolazione, i suoi conflitti interni e le sue condizioni di vita e aspirazioni. E la sua rivoluzione, tentata, usata, tradita, stravolta.

IL LIBRO di Nancy Porsia, Mal di Libia. I miei giorni sul fronte del Mediterraneo (Bompiani, pp. 290, euro 18), al contrario, ci fa calare nella storia e nella vita quotidiana di questo paese, accompagnandoci, attraverso pagine febbrili, durante il periodo successivo all’uccisione di Gheddafi, dal mese di ottobre 2011. L’autrice si è immersa totalmente nella vita di questo paese, almeno fino a quando le è stato possibile, minacciata, a un certo punto, dai poteri criminali che aveva svelato e denunciato con nomi e cognomi, attraverso il suo lavoro di inchiesta. Compreso il nome del trafficante conosciuto come Bija, ospitato nel 2017 in incontri sul tema dell’immigrazione con delegati del Governo italiano, come documentato nel 2019 dal giornalista di Avvenire Nello Scavo.

Il libro ci proietta nelle fragilità della tentata transizione alla democrazia e nel processo che, molto rapidamente, per responsabilità interne e, soprattutto, internazionali, ha portato la Libia a divenire uno Stato fallito, dominato da pratiche di tipo mafioso, «cannibalizzato dalle varie ragioni di Stato dei paesi vicini e lontani, scivolato in una guerra civile in cui i libici sono soldati e gli stranieri generali».

QUESTE PRATICHE raggiungono il loro livello più sistematico nel caso della gestione della merce-migrazione, trasformata in pochi anni in un’industria del traffico e in una fabbrica di estorsioni, violenze e attraverso «il business della detenzione».
Va meditato pagina per pagina questo testo, anche per capire come è stato possibile che lo Stato italiano abbia firmato degli accordi con quello libico – «con alcune delle sue milizie», in realtà – nonostante conoscesse i trattamenti inumani riservati a una parte degli immigrati nei suoi centri di detenzione e nelle prigioni.

È stato possibile perché le persone in cerca di protezione sono state definite come una minaccia da parte degli Stati europei e, quindi, da tenere lontane dando i soldi alle dittature, come quella turca di Erdogan, o alla Guardia costiera libica, formata anche da trafficanti, come nel caso indagato da Nancy Porsia nella città di Zawiya in Tripolitania. Più è entrata nei meandri di questo metodo mafioso – di quello che in un capitolo del libro viene definito «Il cartello» – più la realtà che la giornalista ha incontrato mostra l’abisso in cui la Libia è stata cacciata.

Le condizioni di vita delle persone straniere incontrate nelle carceri di Tariq al-Seka, Abu Salim e Surman sono raccapriccianti. Un incubo? No, una materialità concreta che, sebbene raccontata e fatta conoscere alle popolazioni e istituzioni italiane ed europee, non ha sortito alcun effetto sulle politiche migratorie; anzi, al contrario, queste si sono ancora di più fondate dal 2017 in avanti sull’esternalizzazione delle frontiere, la sicurezza selettiva dei confini, la criminalizzazione dei potenziali richiedenti asilo e l’indifferenza di massa verso le sorti di centinaia di migliaia di persone. Queste politiche continuano nonostante il loro fallimento, reso terribilmente evidente dagli oltre 47 mila morti che l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) conta nel Mediterraneo dal 2003 ad oggi, proprio perché l’Europa, invece di cambiare la propria prospettiva verso un fenomeno in parte nuovo come quello delle migrazioni in corso, continua allo stesso modo, sacrificando sempre più vite alla propria scelta di inadeguatezza, anche giungendo ad assoldare «sicari per eliminare i testimoni».

QUESTO FALLIMENTO si perpetua sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno, rendendo evidente, come si scrive nel libro, la crisi profonda della nostra democrazia, di quella italiana, svenduta negli accordi con le milizie libiche, svendendo, al tempo stesso, «migliaia di uomini, donne e bambini, i loro diritti, il loro diritto alla vita». A questo fallimento, però, non possiamo arrenderci, al fine di non perdere del tutto la nostra umanità, così viva, al contrario, nella lucida rabbia che anima questo libro e che suscita la sua lettura.