Internazionale

«Mai più silenzio in Argentina, oggi come 43 anni fa»

«Mai più silenzio in Argentina, oggi come 43 anni fa»Le madri di Plaza de Mayo nel 1985 – Ap

Argentina Intervista a Vera Vigevani Jarach, classe 1928, ebrea e italiana fuggita in Argentina a 11 anni per scappare dalle leggi razziali. Lì ha poi conosciuto un altro genocidio: quello dei 30mila desaparecidos della dittatura degli anni ’70

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 24 marzo 2020

Cammina con fatica. Entra nella stanza, si siede e domanda: «Volete che me lo metta per l’intervista?». Fruga nella borsa e tira fuori un fazzoletto accuratamente riposto in una busta. Lo ha indossato per 40 anni, è un simbolo di lotta conosciuto in tutto il mondo. Sopra c’è una scritta blu, un nome e una data. Si legge: Franca Jarach, 18 anni, 25 giugno 1976. Il fazzoletto è sulle sue ginocchia, lo piega con un gesto ormai quotidiano e lo lega intorno alla testa. Ora è pronta. È Vera Vigevani Jarach, classe 1928, ebrea e italiana fuggita in Argentina a 11 anni per scappare dalle leggi razziali. Lì ha poi conosciuto un altro genocidio: quello dei 30mila desaparecidos della dittatura degli anni ’70.

Nell’estate del 1976 la figlia di Vera, Franca, è scomparsa. Aveva 18 anni, era una studentessa del Colegio Nacional di Buenos Aires e militava nei gruppi studenteschi. È stata detenuta alla Esma, uno dei più grandi campi clandestini di detenzione e sterminio di tutto il Paese, dove oltre 5mila persone hanno perso la vita. Un giorno Vera, che non ha mai smesso di cercarla, si è unita ad altre donne i cui figli erano scomparsi. Hanno iniziato a marciare in Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada. In un Paese dove sparivano migliaia di persone nel nulla, sono scese in piazza di fronte al palazzo governativo chiedendo a gran voce dove fossero i loro figli.

Vera Vigevani

 

Da allora sono passati 40 anni e quelle donne, le Madres de Plaza de Mayo, non hanno mai smesso di lottare: ogni giovedì scendono in piazza e, ormai novantenni, marciano tenendosi a braccetto e indossando i fazzoletti bianchi con i nomi dei loro figli. Solo questa pandemia ha interrotto le loro ronde e per la prima volta non si terrà la manifestazione nazionale del 24 marzo. Le Madres hanno fatto sapere che le loro marce sono solo posticipate,.

Quando sei andata la prima volta a fare la ronda con le Madres de Plaza de Mayo?
La prima ronda delle Madri di Plaza de Mayo è stata quasi un anno dopo il colpo di stato. Alcune di noi si erano già conosciute perché non ci arrendevamo e andavamo continuamente a chiedere notizie sui nostri figli scomparsi negli stessi luoghi. Noi avevamo bisogno di sapere, ma non trovavamo risposte. Ad un certo punto una di queste madri ha detto: “Per farci ascoltare dobbiamo andare in Plaza de Mayo, è lì che succede tutto ciò che è importante per il nostro Paese”. E così è nata la prima ronda delle Madri, era aprile del 1977. Io le ho raggiunte qualche giorno dopo.

Come le hai conosciute?
Come madri di persone scomparse nessuno ci dava risposte, ma avevamo un biglietto che ci autorizzava ad andare una volta al mese alla Casa Rosada a chiedere informazioni. Un giorno sono entrata e l’ufficiale in servizio si è alzato e se ne è andato. Sono rimasta sola, accanto a me c’era un’altra signora. Abbiamo scambiato due chiacchiere: anche a lei era scomparso un figlio e frequentava la stessa scuola di Franca. Così siamo andate a prendere un caffè e lei mi ha parlato di questo gruppo di madri che si stava organizzando: una settimana dopo ero con loro per la mia prima ronda davanti alla Casa Rosada.

Come è nata l’idea delle ronde?
Beh, per quello abbiamo ricevuto un aiuto inaspettato. A quei tempi in Argentina vigeva lo stato d’assedio ed era vietato riunirsi, soprattutto a Plaza de Mayo. Noi eravamo un crocchio di donne ferme a protestare, è arrivato il poliziotto di turno che ci ha detto: “Qui non potete stare, dovete circolare”. E noi abbiamo circolato. In effetti quello è stato un consiglio prezioso, avremmo anche dovuto ringraziarlo. Avevamo paura: quello che stavamo facendo, di esporci in quel modo proprio in Plaza de Mayo, era estremamente pericoloso. E così per combattere quella paura ci siamo date il braccio una ad una. E stringendoci a braccetto abbiamo cominciato a marciare intorno ad un monumento nel mezzo della piazza. Così sono nate le nostre ronde, che facciamo tutti i giovedì dall’aprile del 1977. E non ci fermeremo.

Quante eravate all’inizio?
Eravamo pochissime, ma rapidamente con il passaparola si sono aggiunte a noi molte donne. In breve siamo diventate moltissime. Ma devi pensare che se gli scomparsi sono 30mila noi sicuramente così tante non le siamo mai state. A volte ci viene chiesto perché eravamo solo donne. Dove erano i padri? La verità è che non li volevamo, stavano agli angoli della piazza e se succedeva qualcosa ci aiutavano. E ovviamente facevano cose molto pericolose anche loro. Con gli anni noi Madri siamo diventate un esempio per il mondo e lottiamo ancora oggi per chiedere verità e giustizia per i nostri figli scomparsi. La differenza però è che oggi non siamo più sole: sono in molti ad accompagnarci. Con noi ci sono le madri, i padri, i figli e i nipoti; una parte di popolazione che non guarda più dall’altra parte e il silenzio intorno a noi si è rotto. È un cambiamento che ha a che fare con la democrazia, l’educazione e l’impegno. Il pericolo è che in Argentina, come in altre parti del mondo, si ripetano le stesse tragedie di allora e il silenzio non si rompa: le persone guardano ancora dall’altra parte.

Perché è ancora importante dopo 40 anni chiedere verità e giustizia per i 30mila desaparecidos della dittatura?
Il 24 marzo del 1976 c’è stato un golpe di stato a Buenos Aires che ha portato al potere la peggiore dittatura mai avuta in Argentina. A volte ci viene detto che non è vero che le vittime sono state 30mila. Bene, noi vorremmo sapere esattamente quante sono perché le forze armate lo sanno sicuramente. Possono essere di più, possono essere di meno: ditecelo, non ci avete mai detto niente. Verità e giustizia per noi sono mete imprescindibili. Mi impegno da tutta la vita per far sì che non si cada più in nessuna forma di fanatismo e per questo è fondamentale la trasmissione della memoria. A questo proposito ho due motti: mai più odio e mai più silenzio.

Che cosa significa per te “mai più odio”?
Condivido questo motto con Liliana Segre, mia concittadina e amica. Quando si affrontano delle crisi si cercano dei capri espiatori, si comincia a dire che la colpa “ce l’hanno loro”. Chi sono “loro”? “Loro” sono le future vittime. Come si fa a convincere che bisogna perseguitarle e, perché no, anche ammazzarle? Si comincia a dire che sono cattivi, ladri e che ci portano via il lavoro. Così si creano le vittime. E dall’altra parte chi si crea? Il carnefice. E quello chi è? È la persona che difende l’ordine e la purezza della razza.

E cosa significa il tuo secondo motto “mai più silenzio”?
Le tragedie si continuano a ripetere nel mondo e nella nostra storia. Quando ci si trova di fronte ad un’ingiustizia si deve reagire: si deve rompere il silenzio per impedire che si trasformi in una tragedia. Scendere in piazza a manifestare è pericoloso, lo vediamo ora in Cile, ma è la protesta con il significato più forte che si possa avere. In piazza si rompe il silenzio.

Quando hai rotto il silenzio l’ultima volta?
A dire il vero poco tempo fa. Era lo scorso luglio, in Argentina governava ancora Macri e io ero stata invitata a parlare in una scuola. Al mattino è arrivata a casa mia la professoressa per accompagnarmi. Quando è arrivata però mi ha detto che l’incontro era stato annullato: quella era una censura. Così le ho chiesto di registrare un video in cui ho spiegato agli studenti l’accaduto invitandoli ad incontrarci al Parque de la Memoria a Buenos Aires. È stato fantastico perché il silenzio si è rotto immediatamente e mi sono ritrovata circondata dai ragazzi, dai docenti, dai genitori e da tutti i gruppi studenteschi. Ci sono state le scuse, c’è stata una manifestazione alla Esma e al Parque de la Memoria. E questo significa che rompere il silenzio serve sempre.

Chi sono stati i bersagli della dittatura argentina?
Erano gli oppositori, tutti quelli che non la pensavano come il governo e che si opponevano. Non era necessario essere un guerrigliero per essere considerato un nemico pericoloso: i principali bersagli della dittatura erano operai e studenti. Mi ricordo un episodio che mi è rimasto impresso nella mente. All’inizio della dittatura un compagno di scuola di mia figlia è stato ucciso per strada, davanti alla scuola. Con quell’uccisione, così brutale e così pubblica, i militari stavano inviando un avvertimento ai ragazzi: “Fate attenzione, voi potreste essere i prossimi”. Gli studenti non hanno risposto con la paura, hanno controbattuto a quell’avvertimento con coraggio. Il corpo del loro compagno è stato messo nel cortile della scuola e tutti gli studenti lo hanno vegliato. Mia figlia quel giorno mi ha chiesto di accompagnarla alla veglia. Io l’ho fatto e da allora ho impressa nella memoria quell’immagine tremenda. Non dimentichiamoci poi che bersaglio della dittatura sono state le famiglie dei sequestrati. Basta pensare a tutte le ragazze detenute che aspettavano un figlio.

Che cosa è successo a quei bambini?
Sono stati fatti nascere dentro ai campi di sterminio. Una volta nati, li hanno strappati dalle braccia delle loro madri che sono poi state uccise. Quei bambini sono stati adottati illegalmente da famiglie di militari o vicine alla dittatura e hanno rubato loro l’identità. Sono oltre 500 e sono i nipoti che cercano le Abuelas de Plaza de Mayo. Negli ultimi tempi stanno ritrovando molti dei loro nipoti scomparsi. Oggi sono uomini e donne adulti, tanti aspettano che muoia il “padre”, il militare che li ha rubati prima di contattarle. Le Abuelas hanno una meta aperta che ha a che vedere con la vita e l’identità dei loro nipotini. Hanno un po’ di fretta oramai, siamo tutte novantenni e a questo punto abbiamo un po’ di fretta in generale. Io con l’età sono diventata impaziente e ho bisogno che il mondo migliori. Ogni anno torno in Italia e tengo incontri nelle scuole: ho scelto di puntare sull’educazione come avrebbe fatto mia figlia Franca. Se le fosse stata data la possibilità di crescere lei sarebbe diventata un’insegnante. E io oggi, con la fretta di una novantenne, faccio quello che non ha potuto fare mia figlia.

 

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Questo articolo fa parte del progetto del Centro di giornalismo permanente “Archivio desaparecido”, un archivio multimediale che ricostruisce le storie dei cittadini italiani scomparsi durante le dittature sudamericane degli anni ’70. Per creare un archivio libero e gratuito gli autori (Elena Basso, Marco Mastrandrea e Alfredo Sprovieri) hanno lanciato una raccolta fondi

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