Il faccione largo di Prabowo Subianto ha tappezzato tutta l’isola di Bali dove forse il generale prestato alla politica pensa di ottenere consensi. Strano per un politico che si è appoggiato nelle due passate tornate elettorali ai settori più radicali dell’islam. O forse è proprio per il fatto che Bali è l’unica isola indonesiana dove la maggioranza è di fede indù che bisogna battere il chiodo. O ancora, visto che lo sviluppo dell’ “isola degli Dei” continua ad andare col vento in poppa, Prabowo fa appello a quel vasto segmento di popolazione che dalle altre isole è venuta qui a cercare lavoro alimentando così la una volta esigua comunità musulmana. Come che sia, la quantità di cartelloni con la faccia di Prabowo, è la dimostrazione che benché manchi ancora un anno, la campagna elettorale è già iniziata.

SI VOTERÀ NEL 2024 sia per il Capo dello Stato, carica chiave in una repubblica presidenziale, sia per il parlamento, in quella che è tutt’altro che una battaglia già decisa tra questo o quello. Nei partiti si viaggia ancora nell’incertezza sui candidati. Il Gerindra, il partito di Prabowo, il candidato ce l’ha già (finora l’unico, assieme all’attuale governatore di Giacarta Anies Baswedan del partito NasDem) e, a quanto dicono sondaggi e analisti, questa volta l’ex genero del dittatore Suharto ed ex capo delle Forze spaciali potrebbe farcela.
Naldo, un trentenne di Makassar che sbarca il lunario a Sulawesi facendo l’autista non dice come la pensa. Nota soltanto che Prabowo «ha già perso due volte». Il voto giovanile è importante in questo Paese di 270 milioni di abitanti.

PRABOWO ha un passato turbolento di contestazione dei risultati e l’ultima volta, nel 2019, ha messo addirittura in piedi una marcia sulla capitale che è costata incidenti, morti e feriti. Joko “Jokowi” Widodo, il presidente allora appena rieletto, giocò d’astuzia offrendogli una poltrona nel suo gabinetto. Affidandogli lo scranno della Difesa lo ha disinnescato, ma ha anche aumentato il suo potere e Prabowo corre questa volta in vantaggio: Jokowi non può avere un terzo mandato e il suo partito – il Partai Demokrasi Indonesia Perjuangan – non ha ancora un candidato.

O meglio, c’è n’è più d’uno, oltre alla presenza ingombrante di Megawati Sukarnoputri, figlia dell’eroe della resistenza anti olandese Sukarno, e già presidente dal 2001 al 2004. Mega e Joko hanno un rapporto strano. Lui deve comunque fare i conti con lei che voleva candidare la figlia ma Mega conosce la sua popolarità: secondo Djayadi Hanan del Lembaga Survei Indonesia l’indice di gradimento del presidente «è aumentato dal 62,6% nel settembre 2022 al 76,2%». In pole position nel Pdi-p c’è Ganjar Pranowo, governatore di Giava centrale, ma la candidatura ufficiale ancora non c’è. Sembra che Jokowi voglia un ticket Prabowo-Ganjar, primo e secondo nei sondaggi.

Uno sposo vota a Bali nel 2019 foto Ap/Firdia Lisnawati

ANTOK, un funzionario pubblico giavanese di Yogyakarta, assicura di «essere ancora uno dei sostenitori di Jokowi: il mio preferito». E così uno dei tanti taxisti di Gojek – la Uber/Grab indonesiana che ha praticamente sostituito la rete del servizio su gomma – secondo cui «Jokowi ha cambiato la vita degli indonesiani». A proposito di Gojek, il suo fondatore Nadiem Makarim, poi diventato ministro, fa il paio con il brillante Erik Thohir (noto per esser stato proprietario dell’Inter)  tra i papabili di cui si fa il nome. Ma è lontano dall’assomigliare a quel Jokowi «…che ha dato dignità ai poveri. Che ci i ha aiutati». Un occhio di riguardo che nessuno aveva mai avuto e che ha dato risultati.

Al netto della corruzione «che imperversa a livello locale come nei livelli medio e medio alti dell’amministrazione», conferma un ricercatore tedesco che vive da molti anni in Indonesia: «Si pensa soprattutto al bene personale. Non certo a quello comune. Se vuoi fare qualcosa qui, devi tenerne conto». La corruzione ha i suoi numeri: secondo Transparency International, nel 2020 per il 92% della popolazione la corruzione nel governo era un «grosso problema» mentre il 30% di utenti del servizio pubblico sosteneva di aver pagato tangenti nei 12 mesi precedenti.

LE SORTI DEL PAESE, come che sia, le deciderà Giava dove vive quasi il 60% della popolazione. Jokowi è di Giava centrale e ha saputo mantenere un equilibrio tra l’originaria forma laicizzante all’origine della Repubblica nata nel 1945 e la presenza di un islam forte nei numeri e non esente da spinte radicali. Un equilibrio sempre difficile e che, dopo le bombe di Bali del 2002 e una insorgenza prepotente di gruppi islamisti e identitari, ha visto crescere l’influenza dell’islam ortodosso. Prima il velo era una rarità. Ora lo portano tutte. Gli alcolici hanno tasse che li rendono poco facili da trovare e consumare.

La recente legge sul divieto di convivenza (che dev’essere ancora firmata da Jokowi) rafforza una tradizione sociale che, almeno in apparenza, obbliga chi non è sposato a disertare la camera da letto. Apparenza, appunto: «Sai cosa mi dicono le mie amiche giavanesi? – confida un’occidentale che vive a Giava da decenni – Che tutto sommato è meglio così: il velo è meno impegnativo e se esci col jilbab tuo marito non ti sommerge di domande». La forma prima di tutto. La sostanza la vedremo dopo. Ma poi quale sostanza: islam, laicità, kejawen….?

«IN REALTÀ c’è un ritorno a certi valori propriamente giavanesi che si stavano perdendo proprio per la corsa degli indonesiani alla modernità, al fare più che all’essere», spiega Laura Romano nella sua bella casa di Solo, una delle vecchie capitali dei sultani di Giava centrale, il cuore del kejawen, una sorta di corrente mistica, spirituale e filosofica che, mescolandosi ai suggerimenti del sufismo, buddismo, induismo e islam ha creato un modo di essere, vivere, pensare. Laura è una delle maggiori conoscitrici di questo mondo travolto dalla modernità.

«Definire il kejawen non è facile: direi che è una cosmologia in cui grande e piccolo, male e bene, giusto e sbagliato si compenetrano in una tensione che cerca sempre il punto di equilibrio. Una definizione esatta sfugge perché il kejawaen appena cerchi di definirlo… già non esiste più», dice sorridendo. «Potremmo chiamarlo “giavanismo” e anche dire che chi nasce qui ne è così dentro da essere kejawen senza nemmeno saperlo». Un sistema di pensiero, una via comportamentale che non esclude e accetta chiunque, di qualsiasi religione o Paese. Ma kejawen è pure magia, bianca o nera che la si voglia o, più semplicemente, conclude Laura, «anche un sistema per arrivare al potere, impadronendosi di una forza dominante per il proprio profitto personale».

E dunque anche la politica può finire dentro questa sfera dove – kejawen o non kejawen, potere magico, islam o denaro – non si escludono colpi bassi.