I lemuri del Madagascar fanno musica per davvero, tanto che i loro canti somigliano incredibilmente, in alcune forme ritmiche, a quelli umani.  E’ una delle ultime scoperte relative ai lemuri indri, specie bandiera ed endemica dell’isola africana, che si parlano, si riconoscono, si avvisano dei pericoli e, soprattutto, si definiscono attraverso i vocalizzi che sono veri e propri canti, ognuno con le sue peculiarità.

Per continuare a studiare tutto questo è partita lo scorso 1 gennaio, una nuova fase di ricerca del Maromizaha Conservation Project, finanziata da World Sustainability Organization (WSO), con il suo progetto Friend of the Earth che, insieme alla U Onlus di Torino e all’Università di Torino, ha l’obiettivo di contribuire, per tutto il 2022, alla conservazione della popolazione di lemuri indri attraverso il monitoraggio di alcuni gruppi e il ripristino dell’habitat nella foresta pluviale di Maromizaha.

Quest’anno sono stati impegnati sul progetto i ricercatori dell’Ateneo torinese (Dipartimento Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi) dal 2004 attivo sull’isola africana; il Groupe d’étude et de recherche sur les primates (GERP) del Madagascare la stessa WSO, che ha scelto come scientific officer la giovane ricercatrice Clarissa Puccioni, studiosa di lemuri ed esperta conoscitrice di quelle zone, che a maggio è partita dall’Italia per unirsi alle guide locali e ai ricercatori torinesi.

“Sono stata intermediaria tra l’Università di Torino, la WSO e Friend of the Earth – racconta la ventottenne ricercatrice specializzata in etologia cognitiva –  e ho seguito il monitoraggio dei dati del progetto”.
Le registrazioni dei vocalizzi sono state realizzate sia attraverso il monitoraggio individuale e di gruppo sia grazie alla tecnologia Pam, Passive acoustic monitoring, che utilizza registratori posizionati sugli alberi visto che gli animali non scendono quasi mai a terra.

Il canto di questa specie di lemuri è una caratteristica talmente particolare che, insieme alla incredibile biodiversità dell’isola, tra le più alte del Pianeta, negli anni ha attirato ricercatori da tutto il mondo, con gli italiani in prima fila. E’ stata proprio l’Università di Torino, infatti, a iniziare, 18 anni fa, questo tipo di ricerche sulla comunicazione vocale, la variabilità genetica, la dinamica di popolazione e il comportamento dell’indri e a realizzare, nel 2009 il Centre Polyvalent de Maromizaha, la prima stazione di ricerca di un’università Italiana in Madagascar.

“Per fare ricerca abbiamo bisogno di un habitat in salute”, dice Cristina Giacoma, zoologa del dipartimento torinese che sin dai primi anni coordina le ricerche. “Per questo tutte le nostre attività hanno ricadute importanti sulla popolazione locale, sulla sua formazione e sul suo impegno a proteggere la ricchezza di questi luoghi, già messa a dura prova dagli eventi climatici”. Il Madagascar, infatti, pur essendo uno degli ultimi produttori di gas serra al mondo, con appena lo 0.01% delle emissioni globali, è, secondo l’Onu, tra i paesi che subiscono maggiormente il cambiamento climatico e che, a causa della grande siccità, sta attraversando un periodo di tremenda carestia.

A questo si aggiunge una pericolosa deforestazione causata soprattutto dall’agricoltura cosiddetta “slash and burn”, un metodo di coltivazione che comporta il taglio e la combustione di piante per creare campi e la raccolta di legna da ardere.  Due fattori che hanno provocato un drammatico declino della biodiversità e a cui si aggiunge la pratica della caccia illegale, che sta mettendo in serio pericolo la sopravvivenza dei lemuri indri, entrati ormai a pieno titolo tra le specie considerate a rischio critico di estinzione.

Anche se a lungo si è pensato che l’indri potesse essere protetto dai “fady” locali, tabù tradizionali che impongono la tutela dell’animale, non sembra essere più così e oggi questi lemuri, che hanno una carne molto pregiata e costosa, sono cacciati anche lì dove si pensava non potesse accadere e dove questi animali erano considerati intoccabili.

“Del resto – dice la professoressa Giacoma –  se non offriamo alle popolazioni locali un’alternativa per vivere dignitosamente e se non trasmettiamo il messaggio che la protezione dell’habitat rappresenta per loro un investimento a lungo termine, è naturale che l’aspetto della conservazione venga messo da loro in secondo piano”.

Per questo il progetto prevede il coinvolgimento della popolazione attraverso la formazione di guide turistiche e di ricercatori locali, lo sviluppo dell’agricoltura familiare, l’implementazione di fonti alternative di energia e vere e proprie azioni di riforestazione.

Dal 2008 sono stati monitorati 10 gruppi familiari di Indri selvatici e quest’anno sono diventati 14 grazie alla nuova fase progettuale.

Questo ci permetterà sia di aumentare lo stato di protezione della specie, sia di stimare in modo più accurato la popolazione esistente nell’area protetta. Un’azione che, in sinergia con la riforestazione di ulteriori 5 ettari di foresta, contribuisce in modo pragmatico alla protezione di una specie critically endangered, ma estende anche indirettamente la protezione a tutte le altre specie animali che caratterizzano l’incredibile biodiversità della regione.

Dalla raccolta ed elaborazione di questi risultati sono state fatte scoperte interessantissime legate alle loro espressioni vocali.

“La loro complessità di linguaggio è molto elevata – spiega Cristina Giacoma – tanto che utilizzano vocalizzi diversi a seconda del tipo di predatore (aereo o terrestre) che vogliono segnalare”.

Sicuramente il canto per loro è associato fortemente alla definizione dell’identità. Attraverso di esso, infatti, i lemuri indri raccontano chi sono, quanti sono, le loro età e il loro genere.

Addirittura usano i vocalizzi per combattere, a suon di musica, una raffinata battaglia territoriale.

Quando due o più gruppi si contendono uno spazio lo fanno, infatti, attraverso un lungo e assordante sovrapporsi di canti caotici che durano anche un’ora e raggiungono i 110 decibel, fino alla resa finale del gruppo più esausto. Una sorta di braccio di ferro che però non arriva mai (o molto raramente) allo scontro fisico.

L’ultimo passo della ricerca su questa specie riguarda l’incredibile somiglianza tra il ritmo dei loro canti e due forme ritmiche dei canti umani “Una scoperta recente – dice Valeria Torti, ricercatrice dell’Università di Torino – che ha aperto nuovi scenari sulla complessità di questi animali, forse fino a ora sottovalutata.  Una somiglianza che era stata rintracciata solo negli uccelli e in alcune specie di primati più evolute. Ritrovarla nei lemuri, considerati una specie arcaica, soprattutto a causa delle loro rare interazioni sociali, è stata una grande sorpresa”.

Insomma dopo 18 anni i lemuri cantanti riservano ancora soprese. A dimostrazione che per conoscerli in profondità e tutelarli c’è bisogno di tempi lunghi.  “Nei prossimi anni  – dicono dal WSO – sarà di grande importanza continuare sostenere la gestione locale delle foreste migliorando l’approccio esistente basato sulla comunità. Le azioni dovranno includere  l’espansione degli habitat protetti per diminuire il disturbo dei lemuri da parte delle comunità rurali, con un necessario coinvolgimento della popolazione”. Azioni che creano legami e fanno mettere radici. Perché è così che si cambiamo le cose.