«Non chiediamo armi ma fondi. Denaro, risorse finanziarie per far fronte a quanto accade in Myanmar. In attesa che il National Unity Government, l’esecutivo civile di unità nazionale (Nug) che combatte la giunta militare, venga riconosciuto dai governi del mondo, lo si può finanziare. Saranno poi i birmani a decidere come spendere questi soldi: ci sono villaggi distrutti, profughi, persone che hanno bisogno di soccorso e di cibo. È un modo per far vincere la rivoluzione».

È RISOLUTA MA THIDA, ex chirurga che vive ora in Germania in una residenza per scrittori dove sta lavorando al suo ennesimo libro: ne ha già scritti 25, la gran parte dei quali in birmano e per i quali ha molto spesso ha usato uno pseudonimo: Suragamika, che significa «viaggiatrice coraggiosa».

Nota per il suo sostegno ad Aung San Suu Kyi, ha pagato con sei anni di carcere nella prigione di Insein a Yangon le sue posizioni prima di essere liberata nel 1999 grazie anche alla pressione internazionale e alle campagne di Amnesty International.

Ne uscì nel 2012 una memoria dedicata ai giorni nel più grande carcere birmano dove ora sono rinchiusi gran parte degli oppositori politici al regime militare: Sanchaung, Insein, Harvard, tradotto e pubblicato in inglese nel 2016 col titolo Prisoner of Conscience: My Steps through Insein.

L’occasione per incontrarla, grazie alla Comunità birmana in Italia, è un suo breve viaggio nel Belpaese. «Credo che dentro Tatmadaw (l’esercito birmano) si stia muovendo qualcosa e non solo perché si cambiano le caselle a generali e ministri (recentemente la giunta ne ha spostati alcuni e licenziato il ministro per l’immigrazione, ndr). C’è scontento tra i soldati, insoddisfazione nei ranghi intermedi e dissapori anche al vertice – dice al manifesto – pur se la giunta consente ai soldati libertà di saccheggio quando assaltano i villaggi».

«MA RESTA IL PROBLEMA dell’atteggiamento di molte autonomie locali: gli eserciti etnici in alcuni casi si sono schierati col Nug, in altri stanno a vedere se convenga di più negoziare con la giunta o unirsi al governo civile. Gli spazi di manovra però si restringono: anche negli Stati etnici che reclamano autonomia e indipendenza l’esercito interviene. E dove non interviene direttamente, la loro gente soffre gli effetti indiretti della guerra che si diffondono ovunque: prezzi alle stelle, mancanza di lavoro, fame».

E l’Asean, chiediamo, l’associazione di Paesi del Sudest asiatico in cui tutti sperano per una mediazione? Ma Thida allarga le braccia.

«Mi sembra una strada senza speranza. Si certo, ora la Malaysia – che ha molti rifugiati birmani tra cui molti rohingya (la minoranza musulmana ndr) – alza la voce. E anche gli indonesiani. Ma poi contano gli affari. A Singapore per esempio i soldi e gli investimenti birmani sono tanti».

Eppure c’è fiducia nel futuro di questa rivoluzione cominciata subito dopo il golpe del febbraio 2020 in seguito alle elezioni che avano rafforzato la Lega di Aung San Suu Kyi.

IL MORALE DELLE TRUPPE è basso, dicono le voci che giungono dal Paese: metanfetamina per andare a combattere, spesso con armi scadenti perché si lucra anche sul commercio degli armamenti di cui la Russia è un grande fornitore, amico dei militari: «Mosca cerca appoggi contro l’isolamento dovuto alla guerra ma al Myanmar sono poco interessati».

E i cinesi? «Stanno alla finestra – dice – e se all’inizio hanno sostenuto la giunta, più passa il tempo più vedono i loro affari compromessi».

La giunta, come ci conferma anche la scrittrice, ha appena fatto un mini rimpasto, secondo alcuni un segno di debolezza e di qualche frattura interna. Anche perché tutti temono tutti, poiché ognuno conosce i crimini commessi dall’altro.

L’ultimo, in capo all’apparato giudiziario sotto completo controllo militare, riguarda l’ennesima condanna di ieri (ne diamo conto nella cronaca) che si somma a quella di metà agosto con una pena di sei anni di carcere per la «Lady» Aung San Suu Kyi, colpevole nella penultima condanna di corruzione: una sorta di girone infernale giudiziario che continua a sommare pene detentive in processi che si svolgono rigorosamente a porte chiuse.

Ed è di una decina di giorni fa anche la notizia che la magistratura metterà in vendita la residenza di Suu Kyi a Yangon, dove è stata anni ai domiciliari. Il danno e la beffa.

MA I CRIMINI restano nero su bianco grazie all’Assistance Association for Political Prisoners che ogni giorno lista nomi, cognomi, luoghi e date delle esecuzioni (a oggi oltre 2.260) e tiene conto dei prigionieri politici (più di 12mila).

Numeri forse per difetto se, a inizio 2022, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project erano circa 12mila le vittime della violenza politica dal golpe del primo febbraio 2021.