Luz Arcas, ballare insieme: la festa dei corpi e della morte
Intervista La danzatrice in scena a Palermo ancora oggi e domani con «Toná», ispirato al folklore andaluso
Intervista La danzatrice in scena a Palermo ancora oggi e domani con «Toná», ispirato al folklore andaluso
«Si balla, di solito, per stare insieme», scrive Georges Didi-Huberman in Le Danseur des solitudes. Luz Arcas danza sola in scena per uscire dal suo corpo affinché vi entrino i corpi.
Dopo la partecipazione al Festival di Spoleto 2022, La Phármaco, la compagnia di danza contemporanea che ha fondato nel 2009, porta lo spettacolo Toná al Teatro Libero di Palermo – 27 e 28 ottobre, con il supporto del PICE (Acción Cultural Española) e dell’Instituto Cervantes. Toná si basa sul folklore andaluso (il toná è un cante senza accompagnamento musicale, una forma arcaica di flamenco) e indaga la transitorietà dell’esistenza umana, la malattia, la morte e la rinascita. Se come coreografa Arcas si ispira molto al cinema, i suoi riferimenti nella danza sono la capoverdiana Marlene Monteiro Freitas (Leone d’argento della Biennale di Venezia 2018) e Israel Galván, ballerino e coreografo di flamenco d’avanguardia, a cui Didi-Huberman ha dedicato il saggio citato in apertura. «Senza dubbio si balla per stare insieme. Senza dubbio danzare non è isolabile da alcun momento umano», scrive il filosofo francese. «Perfino la morte si danza, non solo nella coreografia dei vivi che la piangono, ma anche nel fatto che i movimenti più belli della danza si trovavano, nell’antichità, scolpiti proprio sulle pareti dei sarcofaghi».
Ballare la morte è anche il modo migliore di celebrare la vita attraverso un rito di catarsi individuale e collettiva.
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Il compañero del flamencoIL PUNTO di partenza dello spettacolo è una ballerina malagueña del XIX secolo a cui Arcas era interessata da anni, Trinidad Huertas «La Cuenca», la cui biografia ha trovato nella biblioteca del padre. «Era una flamenca che divenne famosa in tutto il mondo con uno spettacolo in cui si vestiva da torero. Una donna che indossava i pantaloni, andava in scena con abiti maschili e proponeva uno spettacolo sulla morte, era molto erotica e rivoluzionaria al tempo stesso».
Il dolore che Arcas celebra è carico di energia. «Quando una persona cara si ammala, non succede niente di strano: non è un’ingiustizia, ma una cosa naturale che riguarda il corpo. La nostra società rifiuta il corpo malato, oggi conta solo il corpo produttivo. Nessuno ci insegna a morire, che è la cosa più importante della vita, e siamo ossessionati dal culto dell’eterna giovinezza e bellezza. Toná è un omaggio alla morte, alla persona che vive il lutto, che accompagna il malato, l’assente, con l’energia del folklore per cui la morte è parte naturale dell’esistenza, affrontandolo con un dolore antico e fertile, legato al ciclo della vita e della terra. È un dolore molto concreto ed era questo che avevo voglia di ballare, celebrandolo come una festa».
QUELLO che oggi si vive con dissidio e smarrimento, per il folklore è invece molto chiaro: «Nelle canzoni, nelle coplas (strofe di quattro versi di arte minore, cioè con un massimo di otto sillabe), la propria pena possiede energia perché il cante, la voce che è corpo, è viva, vitale. In Toná ballo la forza del dolore, la potenza della morte, e la ballo con rabbia e allegria». È anche un linguaggio universale: quando ha portato Toná in Perù, il pubblico lo ha compreso perfettamente, dice Arcas. Il cappello nero che indossa durante lo spettacolo è simile a quello raffigurato nel mosaico della Villa di Cicerone a Pompei, conservato nel Museo Archeologico di Napoli.
Il dolore mi ha portata a lavorare su un sentimento della cultura popolare, la morte come celebrazione della vita, la festa dopo il luttoPur essendo l’unica a danzare, in scena c’è una triade femminile composta da Luz Prado al violino ed elettronica e Lola Dolores alla voce, palmas e percussioni. Centrale è il dialogo con la violinista, dal linguaggio molto elaborato basato sulle verdiales, un folklore della provincia di Malaga, su cui si inserisce la cantante.
Se il punto di partenza è la malattia, lo spettacolo si sviluppa in tre momenti distinti in cui le tre donne si appropriano di simboli nazionali e patriarcali che rappresentano l’autorità: la bandiera spagnola, il trono e il torero. La prima parte è l’omaggio al toreo, la corrida, in cui il corpo è sacrificato e la morte ritualizzata. «Mi affascinano le radici dionisiache del teatro e della danza, il confronto con la componente animalesca e istintiva. Mi interessano le feste popolari, non intellettualizzate, che mettono in primo piano la relazione dell’essere umano con l’animale che non è alieno dall’umano, anzi fa parte di noi: il toro è la forza selvaggia dentro di noi che coesiste con quella razionale, incarna la coppia apollineo-dionisiaco. La tauromachia è un rito espiatorio, un sacrificio, in cui il corpo si consegna davanti a tutti per morire. Lo trovo molto seducente, come simbolo e atto metaforico. Per me danzare vestita da torera è molto conflittuale: non vado alla plaza de toros, ma non posso fare a meno di riconoscere che quella tradizione fa parte di me, mi affascina la sua coreografia e i costumi. Allora me ne impossesso come donna, mi vesto da torera e mi confronto io con il toro. Prendo anche la bandiera spagnola e gli do il significato che voglio. Mi approprio dei simboli e così facendo separo la corrida e la bandiera dalle connotazioni di cui le ha investite la Grande Storia. Con me possono diventare qualcosa di diverso. Tutto ciò è legato al padre: per me è importante riconciliarmi con la morte, i vincoli, i limiti».
Della rielaborazione dei simboli e dell’iconografia fa parte anche la Madonna del Carmine, che nel sincretismo presente in alcune aree dell’Andalusia è una figura pagana e un’eredità matriarcale. Arcas è molto interessata all’influenza della civiltà tartessica presente dal XIII al VI secolo a.C. nel sud della Spagna. Nella seconda parte incentrata sul dolore, si lavora il lutto successivo alla morte. Vestita di nero, danza una petenera, un cante flamenco legato alla perdita. La terza e ultima parte è dedicata alla redenzione, la fiesta, la celebrazione, la grande catarsi, la resurrezione, e vi compaiono le verdiales e la bandiera spagnola, accompagnata da un toná.
DOPO tre anni di tour, in cui lo spettacolo ha subito aggiustamenti e modifiche, oggi Toná è una performance molto energica e viva che si adatta agli spazi in cui viene eseguita, di cui asseconda l’energia. L’incontro con Palermo e la Sicilia, per i numerosi punti di contatto nell’interscambio culturale del bacino del Mediterraneo e per la dominazione spagnola sull’isola, sarà particolarmente felice e fertile. Come il dolore, la morte e la rinascita che si danzano in scena e che ci uniscono in quanto esseri viventi.
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