Politica

Luoghi non più comuni: «rivoluzione»

Luoghi non più comuni: «rivoluzione»

Dizionario di fine anno La rivoluzione, rovesciata nel suo contrario, oggi ha dichiarato finita la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla subalternità. Così vuole ripristinare un’altra libertà, quella dei proprietari, della sovranità sui confini, di un unico comunismo: quello del capitale

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 29 dicembre 2023

La rivoluzione, dicevano, è finita. Così non è stato. È tornata come un fantasma che ha preso le sembianze di un doppio mostruoso. Quell’ideale di rivolgimento del cielo sulla terra, in nome del “sogno di una cosa”, è stato ribaltato in un incubo. In una spirale ritorta su se stessa è diventata irrisoria tanto l’evocazione di una “fine della storia” quanto più paralizzante si è fatta quella di una “fine del mondo”. La rivoluzione, rovesciata nel suo contrario, oggi ha dichiarato finita la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla subalternità. Così vuole ripristinare un’altra libertà, quella dei proprietari, della sovranità sui confini, di un unico comunismo: quello del capitale.

Non più rivoluzione, dunque, ma contro-rivoluzione. Quella tesa a prevenire l’insorgenza dell’uguaglianza e dell’affermazione della singolarità. Il suo atto politico clamoroso è stato l’assalto al Campidoglio di Washington del 6 gennaio 2021. Un’insurrezione che ha conosciuto epigoni in Brasile tra i seguaci di Jair Bolsonaro sconfitto da Lula. Inchieste, condanne e contraddizioni della più antica democrazia imperiale del mondo non impediranno a Donald Trump di candidarsi alla Casa Bianca nel 2024. Se dovesse vincere le elezioni presidenziali, ciò sarebbe il consolidamento di una rivoluzione al contrario cresciuta sul ceppo del neoliberalismo.

Il neoliberalismo è il nesso politico tra l’egemonia dell’estrema destra globale e il capitalismo. È una categoria discussa in sede teorica anche se ha prodotto diversi equivoci nel dibattito dove è confuso con una variabile: il neoliberismo, cioè una distopia che immagina la società come una marionetta guidata dalla mano invisibile del mercato. Il neoliberalismo, invece, è una composita dottrina economico-politica-antropologica e fondata sull’attivazione permanente di soggetti consapevoli invitati a praticare una libertà sospesa tra l’illusione del libero arbitrio e l’aspirazione a una volontà onnipotente.

Sto parlando di un’idea politica adattata nei singoli contesti nazionali. Si è affermata in reazione al ciclo rivoluzionario degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo e si è rafforzata nella trasformazione postfordista della produzione durante la prima fase della globalizzazione. Lo ha fatto con tutti i mezzi: militari (in Cile, nel 1973) e democratici. Ha affrontato molte crisi, ma resta incontestata. La sua egemonia è stata legittimata dalle socialdemocrazie e dalle loro variabili più fanatiche e provinciali cresciute tra gli eredi del partito comunista nel nostro paese, per esempio. Simili tentativi sono stati giustamente delegittimati e disprezzati.

La contro-rivoluzione ha assunto le sembianze politiche di una rivoluzione passiva. Questo concetto ha una lunga storia: è stato prima elaborato da Thomas Paine, poi messo all’opera da Vincenzo Cuoco, reinventato da Antonio Gramsci. Oggi, in tutt’altro contesto, può essere riusata per descrivere gli effetti del cosiddetto “neoliberalismo progressista” e la discontinuità creata dall’estrema destra. Le loro sono politiche di segno opposto unificate però da un’azione trasformistica governata, non senza contraddizioni, da gruppi sociali dominanti la cui azione opprimente ed elusiva esclude la possibilità di una rivoluzione politica e sociale generalizzata e travisa alcune istanze di giustizia sociale con altre di natura conservatrice. Così l’uguaglianza è stata intesa come redistribuzione tra i ricchi, la liberazione come dominio maschile, il benessere come performatività dell’individuo, la giustizia climatica come arricchimento del capitalismo fossile. Paradossi in cui si riflette la rivoluzione che rende passivi, non autonomi. Sono questi i campi – sia politici che istituzionali o soggettivi – in cui è in corso una battaglia furiosa, come dimostrano i movimenti femministi ed ecologisti. E dove è più evidente l’azione della contro-rivoluzione che ha imposto una torsione autoritaria del neoliberalismo.

Dal punto di vista delle estreme destre, dei cenacoli intellettuali, dei gruppuscoli violenti e di alcuni ministri in carica tale conflitto è stato definito “guerra culturale”. Vogliono creare la “loro” egemonia. Contro quella di una “sinistra” fantasmatica. Il loro è un Gramsci reinventato: separano la politica dalla cultura, mentre intendono l’egemonia come una lotta postmoderna tra simboli e linguaggi, non come una lotta di classe materiale e ideale.

L’uso di Gramsci da parte dell’estrema destra è un piccolo classico. Un’analisi gramsciana di questa interpretazione può invece arricchire il piano della nostra critica. Questo è un altro modo per giustificare – appropriandosi dei concetti dell’avversario – la lotta di classe dei dominanti in una rivoluzione conservatrice di carattere sciovinista e nazionalista che divide i “meritevoli” dagli “immeritevoli”, i “produttivi” dagli “improduttivi”, la “bianchezza” eteronormativa dagli extraterritoriali o dagli “anormali”.

Il fatto che non siano stati trovati strumenti politici ugualmente potenti per operare un rovesciamento della “contro-rivoluzione” non dovrebbe impedire di cogliere l’originalità e i limiti dei movimenti che cercano di praticare l’intersezione, l’alleanza, l’insorgenza. Scontiamo il “momento populista” della politica che ha diviso le molteplicità dalle identità, ha separato le vite dai diritti, ha costruito gerarchie tra diritti sociali, civili e politici. Occorrerebbe, invece, connettere le prassi con la conoscenza, l’immaginazione concreta con la lotta di classe. Strada in salita, perché la contro-rivoluzione ha vinto su questo terreno. E l’ha colonizzato. Ma non l’ha saturato. Ed è per questo che avvelena i pozzi con la sua “guerra culturale” che prende, a tratti, le sembianze di una guerra civile.

Un altro spunto gramsciano è utile per analizzare questa situazione. Le rivoluzioni passive crescono sull’idea di vivere tra le rovine. Quella attuale non è da meno. Noi possiamo dire di vivere in una condizione postuma. Postumo però è un concetto prismatico: non è solo chi è venuto dopo la fine, ma è anche chi scopre che un’altra vita comincia dopo la guarigione dai postumi di una malattia, di un incidente, di un’esperienza intensa e sublime, di una sconfitta politica di enormi dimensioni. Tale rovesciamento permetterebbe di pluralizzare il presente e rappresentarlo non come la fine del mondo in generale, ma come la liberazione da un mondo determinato, quello della soggettività neoliberale nelle cui convulsioni è nato l’attuale ciclo reazionario. Il prospettivismo storico della liberazione contro l’illusione retrospettiva dell’apocalisse. È un modo per non lasciare la rivoluzione tra le idee desuete, stranamente comuni.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento