Luoghi non più comuni: «cura»
Dizionario di fine anno La distanza che separa la solidarietà della cura dalla coesione sociale, in Italia tutelata dall’articolo 3, è manifesta se pensiamo al fatto che la giustizia redistributiva la si attua non con un generico volontarismo solidale ma tassando i ricchi
Dizionario di fine anno La distanza che separa la solidarietà della cura dalla coesione sociale, in Italia tutelata dall’articolo 3, è manifesta se pensiamo al fatto che la giustizia redistributiva la si attua non con un generico volontarismo solidale ma tassando i ricchi
«Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via», cantava Battiato nel ‘97, con un brano, La cura, che avrebbe scalato le classifiche diventando una delle canzoni d’amore più note di sempre. Ci serve come punto d’ingresso, non per omonimia, ma per mettere a fuoco da subito ciò che il lemma «cura», concetto meraviglioso nell’ambito
dell’amore, ha di contraddittorio se declinato politicamente: un certo atteggiamento etico, una postura soggettiva, un cortocircuito tra significato descrittivo e rivendicazione programmatica.
Le ambivalenze del concetto di cura sono state messe in evidenza da un breve testo di Nancy Fraser intitolato Crisis of Care Contradictions of Capital and Care (indicativamente tradotto in italiano come Fine della cura), pubblicato nel 2016, dunque ben prima che il lemma scalasse le nostre classifiche durante la pandemia grazie a un diffuso senso comune che si sostanziava nel decreto Cura Italia (marzo 2020) e in contemporanea, o a seguire, in una serie di testi prodotti invece “dal basso” – tra i più noti il Manifesto della cura del Care Collective inglese.
Il testo di Fraser è utile perché se per un verso le ambivalenze, pure generative, del concetto di cura possono essere lette alla
luce della storia dei femminismi che lo hanno interpretato in più modi (pensiamo per esempio al pensiero chiamato etica della cura o al femminismo della riproduzione sociale), la dinamica che Fraser chiama «collisione» non ha bisogno, per essere compresa, di una conoscenza del dibattito interno al femminismo. Ha piuttosto a che fare con un’ambiguità di natura storica, con la comprensione della fase in cui ci troviamo.
Se distinguiamo tra capitalismo organizzato dallo stato, che emerge a metà del ventesimo secolo e si struttura come compromesso di classe e dunque come processo democratico, e regime neoliberale che prende avvio verso la metà degli anni ‘80 con la dismissione da parte dello stato del suo ruolo organizzativo – la società non esiste, esistono solo gli individui (e le famiglie) – il passaggio dal primo al secondo regime provoca un allineamento tra le contestazioni alle storture del primo modello – pensiamo alle critiche al welfare paternalistico e lavorista – e le esigenze di esternalizzazione delle funzioni organizzative e redistributive del secondo.
La cura, i cui valori si fondano sulla partecipazione a cui è stata sottratta l’impalcatura che la garantiva, si trova sua malgrado ad allinearsi con le direttive che incoraggiano l’interdipendenza, la resilienza, le esperienze di autogestione. Se per Fraser «l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale», la cura oggi può essere intesa come risposta ai processi di dismissione delle istituzioni democratiche che si presenta nella forma di una contestazione che asseconda la torsione post-democratica, occupandosi di attutirne gli effetti e creare le impalcature sociali necessarie allo smantellamento del pubblico.
L’idea di cura si struttura lungo l’asse dell’interdipendenza, del mutuo soccorso, della solidarietà, della promiscuità, della rete affettiva, della «democrazia di prossimità». E dunque: ecologie, sistemi di concatenazioni tra viventi, tecnologie e ambiente, fino ad arrivare alle pratiche «agroecologiche» e «agro-silvo-pastorali».
Se per un verso il Manifesto della cura riconosce che la «cura universale, non-mercificata e solidale» deve essere «principio organizzativo delle nostre società» e che «è necessario che lo stato se ne faccia carico», il problema di fondo rimane un’interpretazione molto confusa di cosa sia pubblico. Il pubblico non è «interdipendenza» di prossimità – comunitaria, gruppale, affettiva – ma un’impalcatura di coesione sociale (principio alla base del servizio sanitario nazionale in Italia) il cui cardine è la tassazione progressiva.
Il pubblico ha innanzitutto funzione redistribuiva: l’accesso ai servizi che garantiscono il diritto alla salute, come è stato notato dalle reti che si occupano di salute trans*, costituisce «reddito indiretto». E se la memoria del portato democratico del pubblico, che istituisce la cittadinanza sganciata dalla nazionalità come qualcosa di esigibile, sembra essere più viva proprio presso le comunità escluse, è perché gli strumenti democratici di coesione non sono affatto empatici.
La distanza che separa la solidarietà della cura dalla coesione sociale, in Italia tutelata dall’articolo 3, è manifesta se pensiamo al fatto che la giustizia redistributiva la si attua non con un generico volontarismo solidale ma tassando i ricchi – per citare il titolo del rapporto Oxfam 2023 sulle diseguaglianze nel mondo. Similmente, a illuminare la distanza tra empatia e giustizia sono le riflessioni che provengono dalle disability studies, che disambiguano le varie componenti della cura (cura, salute, lavoro) a partire dalla critica al difetto principale di tutte le epistemologie e/o ecologie della cura che si sviluppano dipanandosi a partire da chi cura anziché da chi la cura la riceve (e dunque anche: da chi alla cura non accede, e da chi la cura non può o non è in grado di darla).
In questo caso individuare gli ambiti semanticamente meno vaghi in cui la cura è lavoro, contrattualizzato, stipendiato e riconosciuto, è un passaggio cruciale che ci ricorda indirettamente che il welfare è la sfera che sottrae i rapporti all’ambito amorevole e/o oppressivo delle relazioni interpersonali, di prossimità, comunitarie, familistiche.
E dunque: la fine dello stato sociale non ha mai significato la fine dello stato, tutt’al più una coesistenza pacificata dello stato con un regime di domesticità diffusa che si sostituisce al pubblico: lascito della pandemia e dell’accelerazione neoliberale che ne ha approfittato, in una situazione di generale incapacità a produrre delle mobilitazioni in difesa del diritto alla salute.
La critica al concetto di cura non prende di mira le esperienze di mutualismo o gli ambulatori popolari, ma individua il nesso teorico che presenta queste esperienze come contraddittorie per il capitale, alternative, e non invece complementari. Credere che i processi riparativi, che si prendono cura di ciò che il capitale distrugge, abbiano in sé valore di conflitto significa non vedere che ci
stiamo collettivamente attrezzando con soluzioni pre-democratiche – la solidarietà del mutualismo ottocentesco – per un mondo sempre più post-democratico.
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