«Mi ha ucciso una parola troppo forte» ha scritto un poeta, la poesia si intitolava Epitaffio. A ucciderlo davvero fu una corda al collo, ma aveva ragione: le parole possono fare molto male. Non solo quando sono parole sbagliate, avversarie – anzi in quel caso sono riconoscibili nemiche. Ci si può difendere.

Oggi nei cortei le parole sono diventate cartelli, sono stati i Fridays for future a imporre la novità. Gli slogan non si urlano più (o quasi), si scrivono. Le parole avversarie si disegnano a testa in giù. Quelle amiche invece dritte, grandi, colorate.

Ma le parole amiche possono essere ugualmente pericolose. Alcune “nostre” parole sono diventate un po’ come la coperta per Linus. Rassicurandoci, ci tengono fermi. Oppure ci spingono, ma fuori strada.

Tante parole che hanno accompagnato i percorsi di liberazione, parole che sono state nel cuore o nei libri o nei canti della sinistra, sono diventate un ingombro. Un ostacolo. Anche la parola sinistra lo è diventato, si sostiene qui: in questo inserto che uscendo a capodanno invita a fare con alcune parole quello che si fa con le cose diventate inservibili. Le si butta dalla finestra.

È un alfabeto incompleto. Altre parole, altri concetti potevano finire nell’elenco.

Per esempio «piena occupazione», qualcosa che reclamiamo da sempre, un’ambizione che arriva ormai a legittimare ogni forma di impiego sottopagato, quando non gratuito, precario, senza garanzie, più un nuovo schiavismo che il vecchio lavoro.

Oppure «suffragio universale», quella che per decenni abbiamo considerato la condizione sufficiente per garantire l’uguaglianza dei cittadini elettori. E che continuiamo a invocare, malgrado la disgregazione dei corpi intermedi, gli artifici delle leggi elettorali e le barriere di censo per un verso, e per altro verso l’impermeabilità delle bolle alle informazioni rilevanti e la loro estrema permeabilità alle propagande, abbiano da tempo trasformato il momento elettorale in un inganno collettivo. L’elettore con la sua scheda in mano, solo nel vuoto di partecipazione, avanza verso la cabina elettorale con l’illusione di fare un passo verso la democrazia e la retorica del suffragio universale lo avvolge e gli copre gli occhi.

Non solo coperte di Linus, le parole amiche alle quali ci abbracciamo possono essere delle coltri.

Questo inserto invita a lasciarsi alle spalle questi luoghi rassicuranti ma pericolosi, non più comuni. Non è precisamente una strenna natalizia, vuole essere un tentativo di dare spessore alla riflessione politica, anche per reagire allo squallore del dibattito in una forma diversa dalla lamentazione.

Preparandolo, ci siamo accorti che quasi ognuna delle parole che qui vengono affrontate richiederebbe un discorso a parte. Le autrici e gli autori, tra le quali e tra i quali firme nuove e assai graditi ritorni, non lasceranno cadere il confronto.

Naturalmente ognuna di queste parole (ex) amiche ha un suo grado diverso di pericolosità, in genere proporzionale alla grandezza delle promessa che non è riuscita a mantenere. E nei pezzi che leggerete non tutte le parole sono considerate degli ostacoli da rimuovere senza alternative.

Ridare senso a una parola che ci ha accompagnato, ma che il senso ha ormai perso, può talvolta essere un’alternativa ad aprire la finestra e buttarla di sotto. Cosa che in generale è sempre bene fare con attenzione, anche con gli oggetti inutili, anche a capodanno.

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