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Luoghi non più comuni: «identità»

Luoghi non più comuni: «identità»

Dizionario di fine anno Una destra modernamente fascista e dilagante altro non fa che contrapporre alla babele delle rissose identità oppresse il richiamo a identità fittizie ma antiche, note e dunque rassicuranti

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 29 dicembre 2023

“Identità” e “Diritti civili”, nel dibattito e nello scontro politico del presente, sono gemelli siamesi. Inseparabili: non si può citare uno dei due termini senza rinviare immediatamente all’altro. Quando si parla di “diritti civili” si allude per consuetudine alla richiesta di gruppi, per lo più ma non sempre minoritari, caratterizzati da una specifica identità sessuale, di genere, etnica, razziale, ma anche semplicemente fisica, che reclamano non solo accesso ai diritti ma anche riconoscimento della dignità, rispetto, inclusione.

Il catalogo delle identità specifiche è già chilometrico e in continua crescita: solo per quanto riguarda le identità di genere e orientamento sessuale il + aggiunto all’acronimo LGBTQIA (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali) apre all’ingresso di future e potenzialmente innumerevoli micro-identità. Alla chilometrica lista si aggiunge, più sulla carta che nei fatti, l’identità sociale “svantaggiata”, in soldoni i poveri.

Questa domanda di accesso ai diritti e al rispetto, in sé sacrosanta, degenera sempre più spesso in un grottesco, ma non per questo meno inquietante, integralismo: l’illusione imperiosa di modificare le mentalità intervenendo d’autorità sul linguaggio, con la messa al bando di alcune parole anche solo potenzialmente offensive; lo schwa (ə) adoperato al posto della vocale finale per non urtare la sensibilità di chi non si sente né maschio né femmina; la riscrittura di alcuni testi perché “inaccettabili” alla luce della sensibilità moderna e via rabbrividendo.

Tali forzature, circoscritte ma non trascurabili, rinviano ovviamente a un nodo molto meno risibile che Kimberlé Crenshaw, fondatrice dell’Intersezionalità, aveva individuato e affrontato ma non sciolto sin dal 1989, quando la tendenza era ancora appena accennata. Per quanto la sinistra, sia nella sua variante moderata e liberaldemocratica sia in quella radicale e sedicente sovversiva, tenti di far riferimento a questo puzzle di identità parziali come a una soggettività molteplice ma unificata dalla comune oppressione, la missione si rivela impossibile. Per motivi ovvi: tra una lesbica bianca e ricca e una nera e povera il mastice è giocoforza annacquato, il legame sfilacciato. Compiutamente oppressa ed esclusa, notava ironicamente una intersenzionalista nera, è solo una lesbica nera e povera: in realtà si potrebbe aggiungere obesa e disabile. Altrettanto impossibile si rivela l’identificazione di una figura concreta antagonista, che infatti finisce spesso per corrispondere a un tipo ideale altrettanto astratto: il maschio bianco benestante cristiano e in ottima forma fisica.

La via d’uscita, naturalmente, è individuare come controparte non il caricaturale “maschio bianco ecc.” ma il “sistema” che produce esclusione e oppressioni multiple. Ma questo “sistema”, finché non viene analizzato nelle sue dinamiche, nella sua composizione materiale, nella sua realtà concreta, nella sua genealogia e nei suoi interessi reali, finisce puntualmente per scivolare a propria volta nell’astrazione. Il conflitto si connota così intorno a malintese dimensioni puramente etiche: la “civiltà” contro la “inciviltà”, il bene inclusivo contro il male escludente, una specie di antifascismo antropologico che si contrappone al “fascista eterno”, come se il fischio del catcaller o le mazzate di una squadraccia si differenziassero solo per gradazione, rientrando però nella medesima categoria.

È per questa via che, soprattutto dove l’eredità puritana è più forte, nei Paesi anglosassoni, si insinuano le forme di integralismo risibili e allo stesso tempo asfissianti che proliferano su entrambe le sponde dell’Atlantico: oggi Lenny Bruce sarebbe perseguitato e imbavagliato dalla sinistra progressista più che dalla destra reazionaria.

Una destra modernamente fascista e dilagante, del resto, altro non fa che contrapporre alla babele delle rissose identità oppresse il richiamo a identità fittizie ma antiche, note e dunque rassicuranti: la nazione, la religione e, ormai sempre più apertamente, anche “il sangue”, cioè la razza. Dispiega, con migliori risultati, lo stesso vittimismo querulo, la stessa rivendicatività petulante che connotano sempre ogni identitarismo.

Sfrutta e mette a profitto il medesimo smarrimento che produce la proliferazione cancerosa delle microidentità parziali e lo indirizza a proprio vantaggio, in parte ricorrendo ad arcaismi rassicuranti, in parte concentrando l’astio e il rancore contro le rivendicazione identitarie progressiste. Come se fossero l’origine dello smarrimento invece che, a propria volta, un loro prodotto: reazioni alla stessa percezione di dolorosa e umiliante esclusione che anima tanto la trans che si sente negata nella propria identità dai riferimenti alle donne quanto il Redneck furioso perché tutti si sentono in obbligo di usare la N-Word ma nessuno definisce lui con una R-Word o il bravo europeo, non necessariamente razzista, che addebita agli intrusi di un altro colore il proprio sofferto spaesamento, la propria permanente insicurezza.

Si dovrebbe dunque comprendere cosa provoca quello smarrimento, da cosa nasce quella sensazione pervasiva di esclusione e diminuzione: quali interessi li determinano, quali forme di dominio non immaginabili appena pochi decenni fa li producono. Non si tratta di contrapporre i diritti sociali a quelli civili, la nostalgia per un’identità di classe oggi irrecuperabile nelle forme conosciute alle rivendicazioni identitarie degli “oppressi ed esclusi”. Neppure vale l’additare “il capitalismo”, “la logica del profitto” o altri bersagli troppo generici per risultare di qualche utilità.

Bisognerebbe invece tornare alle trasformazioni complessive che, a partire dagli anni ’80 e poi in misura esponenziale, hanno rimodellato tutti gli assetti sociali e produttivi, la loro gestione da parte del capitale a proprio esclusivo uso e vantaggio e le dinamiche feroci di esclusione rese inevitabili dalla necessità di mantenere quella gestione. O, per dirla con altre e già adoperate parole: dalla necessità di imporre una fuoriuscita dalla società del lavoro mantenendo inalterate le regole della società del lavoro.

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