La pubblicazione del quotidiano l’Unità venne decisa a Mosca nell’estate del 1923 dall’Internazionale comunista. Nulla di strano: l’Internazionale era allora per tutti i comunisti «il partito mondiale della rivoluzione», un’organizzazione unitaria, al di là delle diverse appartenenze nazionali. Fu il finlandese Kuusinen, il 5 settembre, a comunicare la decisione al Partito comunista d’Italia e ai socialisti «fusionisti» o «terzini», favorevoli alla fusione col Pcd’I e alla Terza Internazionale, nata nel 1919 per volere di Lenin.
Serrati e altri tre fusionisti erano stati espulsi (per frazionismo) dal Partito socialista: bisognava reagire. Fu deciso per questo di dar vita a un giornale non strettamente di partito, ma saldamente nelle mani dei comunisti, a cui collaborassero i seguaci di Serrati che si preparavano a confluire. Si trattava di contrastare tra i lavoratori l’influenza del prestigioso Avanti!, l’organo socialista diretto da Pietro Nenni.

QUELLA DELLA FUSIONE era una questione spinosa. Per tutto il 1922 e la prima metà del 1923 l’Internazionale aveva spinto per l’unificazione coi socialisti, trovando la ferma opposizione dei comunisti italiani guidati dal leader del partito Bordiga (e con la sola eccezione della destra interna di Tasca). A forza di rinviare l’unificazione, pure tra i socialisti avevano finito per prevalere i contrari: entreranno nel Pcd’I in pochi (ma buoni). Tra essi Serrati, Di Vittorio, Li Causi.
Anche Gramsci era stato a lungo contrario alla fusione: L’Ordine Nuovo si era scontrato duramente con Serrati nel «biennio rosso» 1919-1920, né erano sopite le polemiche per la scissione di Livorno. Nel 1931 Togliatti ricorderà: «Noi combattevamo a fondo Turati e Modigliani, ma Serrati, a Livorno, noi lo odiavamo. Egli era allora, per noi, il nemico principale».

QUESTO ERA LO SCENARIO in cui venne decisa la nascita dell’Unità, e in cui Gramsci scrisse la famosa lettera del 12 settembre 1923 all’Esecutivo del suo partito, proponendo il nome che poi diverrà famoso. Si trovava a Mosca dal giugno 1922 e nel dicembre successivo lascerà «il paese dei Soviet» per Vienna, per avvicinarsi all’Italia, dove non poteva rientrare pena l’arresto. Aveva trascorso più di un anno anguilleggiando (dirà più tardi) tra l’incudine dell’Internazionale e il martello di un Bordiga irremovibile dalle sue posizioni settarie e schematiche. In estate Gramsci aveva passato il Rubicone, accettando la fusione e soprattutto la ripetuta richiesta dell’Internazionale di prendere il posto di Bordiga.
La lettera del 12 settembre è una piccola, importante lezione di politica: le decisioni dell’Internazionale non dovevano essere semplicemente applicate, ma tradotte (concetto strategico nel lessico gramsciano). Per Gramsci l’Unità «dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe». Dovrà informare sui comunisti, ma anche «sulle discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti». La polemica anti-socialista, si raccomandava, non dovrà essere settaria, ma fatta «con spirito politico». E poi, il passo famoso: «Io propongo come titolo L’Unità puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale».
La politica del «governo operaio e contadino» decisa dall’Internazionale andava adattata alla situazione italiana: «noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale».

«UNITÀ» DUNQUE non solo tra comunisti e «terzini», ma tra operai e contadini e tra Nord e Sud: non a caso L’Unità (con la elle maiuscola, come scrive Gramsci, ma che diverrà minuscola nella testata del quotidiano) era stato il nome della rivista fondata nel 1911 da Gaetano Salvemini, letta con grande interesse dal Gramsci giovane studente, sardista e meridionalista ancor prima di diventare socialista e rivoluzionario, e poi comunista. Gramsci a capo del Pcd’I – sarà nominato segretario nell’estate del 1924 – porrà al centro la questione dell’alleanza degli operai coi contadini (che Bordiga aveva del tutto ignorato), specie coi contadini del Sud, non solo i braccianti, ma anche i piccoli proprietari coltivatori immiseriti dal «colonialismo» settentrionale, in un Mezzogiorno che sarà da lui definito «una immensa campagna di fronte all’Italia del nord». La «quistione meridionale» appresa da Salvemini, rivisitata alla luce di Lenin, e dal 1926 arricchita con il riconoscimento del ruolo centrale degli intellettuali, grandi e piccoli produttori di «senso comune»: un esempio notevole di «traduzione», che apriva la strada alla riflessione sull’egemonia. Inizia così la storia dell’Unità. Quotidiano degli operai e dei contadini, che si pubblica a Milano dal 12 febbraio 1924, diretta da Ottavio Pastore e poi da Alfonso Leonetti, due ex-ordinovisti.
Quello stesso anno diverrà «Organo del Partito comunista d’Italia». Dal 1927, iniziata la dittatura fascista, il giornale sarà clandestino, stampato all’estero su carta velina, introdotto in Italia dai comunisti che caparbiamente volevano continuare a essere presenti nel paese. Rinascerà nel 1945 su altre basi, volute da Togliatti per farne uno strumento del «partito nuovo»: un giornale popolare ad alta diffusione (militante), un Corriere della sera di sinistra, che sarà a lungo protagonista delle battaglie per la difesa del lavoro e della democrazia, anima delle lotte dei comunisti italiani.

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SCHEDA. I ricordi di Roscani per Fandango

Ripercorre un secolo di dibattiti, editoriali, aneddoti, conflitti, lotte, ricordi e risate con l’occhio attento e privilegiato di chi ha trascorso trent’anni fra i tavoli di quella redazione il libro «L’Unità. Una storia, tante storie» di Roberto Roscani, pubblicato nella collana Documenti di Fandango (pp. 320, euro 20). Da giovane militante del Pci, Roscani entra a far parte della redazione romana de l’Unità nei primi anni ’70 e ci rimane fino al duemila, quando il giornale chiude. Quello che chiudeva, dopo non poche contorsioni e crisi, era il più diffuso giornale di partito in Italia e nell’Europa occidentale. Nel volume, i ricordi, la memoria di chi il giornale l’ha costruito, gli incontri con i direttori che si sono susseguiti, le riunioni di redazione, i casi che hanno fatto storia, dal delitto Pasolini all’allontanamento di Calvino, passando per la pubblicazione de «Il Dottor Zivago» fino al «caso Maresca».