«Se mi si chiede se la regola adottata oggi in Europa, secondo cui il deficit di un Paese non debba superare il 3% del Pil, abbia basi scientifiche le rispondo subito di no. Perché sono stato io a idearla, nella notte del 9 giugno 1981, su richiesta esplicita del Presidente Mitterand che, in anni di crisi economica, aveva fretta di trovare una formula che mettesse tutti d’accordo e che fosse spendibile nella comunicazione politica coi cittadini.

Nacque così, in meno di un’ora e senza l’assistenza di alcuna teoria economica, l’idea del 3%». Sono le parole di Guy Abeille, all’epoca dei fatti trentenne funzionario del Ministero del Bilancio francese, che mai avrebbe pensato che quel numero magico dalla Francia sarebbe rimbalzato in Germania per poi diventare regola ferrea europea pluridecennale. Un numero arbitrario tanto quanto il gemello del rapporto debito/Pil al 60%.

Due parametri che hanno ingabbiato la società europea per un quarto di secolo, venendo solo temporaneamente sospesi il 23 marzo 2020 in piena pandemia e sino al 31 dicembre 2023.

La sospensione era stata decisa per permettere agli Stati di poter liberare le risorse necessarie a far fronte ai drammatici effetti dell’emergenza sanitaria, economica e sociale venutasi a creare.

Rendendo evidente a tutti l’enorme contraddizione: se i vincoli finanziari sono stati sospesi per salvare persone, società e attività economiche, non serve Aristotele per dedurre che quei vincoli sono contro la vita e la cura delle persone.

Sarebbe stato logico aspettarsi, dopo la concreta verifica sul campo, una radicale inversione di rotta. Che puntualmente non è avvenuta.

L’accordo siglato a dicembre in sede di Unione Europea (che verrà definitivamente approvato entro aprile 2024) riparte esattamente dallo stesso dogma: si definisce finanziariamente sano uno Stato il cui rapporto debito/Pil non supera il 60% e il cui rapporto deficit/Pil non supera il 3%.

Che siano sovranisti o europeisti, di estrema destra, centro-destra o centro sinistra, la sostanza non cambia e il faro resta la trappola del debito, con austerità connessa.

Cosa cambia con il “nuovo” patto di stabilità? Da una parte diviene un vestito cucito su misura per ogni Stato, dall’altra approfondisce il rigore rendendolo maggiormente esigibile rispetto alle regole precedenti.

Vediamone i punti principali. Debito pubblico: riduzione dello 0,5% annuo per chi ha un rapporto debito/Pil tra il 60 e il 90%; riduzione dell’1% annuo per chi, come l’Italia, ha un rapporto superiore al 90%. Deficit: riduzione dello 0,5% annuo per i paesi, come l’Italia, che hanno un deficit superiore al 3% del Pil. Una volta raggiunto il 3%, la riduzione deve continuare sino a raggiungere l’1,5% del Pil (considerato nuovo obiettivo, in quanto deve permettere, in caso di calamità, pandemie etc, di non sforare mai il 3%).

Spesa pubblica: la sua riduzione diventa il principale indicatore per garantire i parametri di cui sopra e sarà la Commissione europea a predisporre per ciascun paese un piano nazionale della durata di quattro anni; in alternativa un paese può decidere di realizzarlo in sette anni, ma questa estensione lo obbligherà ad approvare contestualmente una serie di riforme concordate con la Commissione Europea.

Per il nostro Paese, significherà nuovi e drastici tagli alla spesa pubblica (tra i 12 e i 23 mld/anno a seconda del piano scelto) e l’obbligo a un saldo primario (entrate/uscite) pari a 80 mld/anno. Come una guerra combattuta con le carte di credito al posto dei carri armati.

Qualcuno dice che si è ottenuto un triennio transitorio di leggera flessibilità (2025-2027), ma la sostanza non cambia: dietro ai numeri magici della stabilità finanziaria, c’è il tentativo tutto politico da chiudere nella gabbia ogni possibilità di giustizia climatica e sociale. Smascherarlo è compito delle risorse vive della società.