L’ultimo di noi, il corpo invisibile
Venezia 73 «The Last of Us» di Ala Eddine Slim, il film della Sic che a Venezia 73 si è aggiudicato il Leone d’oro del futuro, completamente immerso nel presente
Venezia 73 «The Last of Us» di Ala Eddine Slim, il film della Sic che a Venezia 73 si è aggiudicato il Leone d’oro del futuro, completamente immerso nel presente
Il Leone d’oro del futuro è targato Sic, la Settimana della critica, un bel risultato per una selezione di alto livello nei sette film in gara come nei fuori concorso e nei cortometraggi – sette anch’essi programmati prima di ciascun film – che hanno messo in luce una geografia di talenti italiani di grande inventiva. Ma questo è un po’ l’obiettivo originario della sezione che negli anni (31) ha scoperto registi importanti o futuri Leoni e intuito tendenze e inclinazioni a venire degli immaginari.
I film presentati quest’anno ne sono un esempio molto puntuale: in ognuno di essi, infatti, si mettono in pratica potenzialità e direzioni sulle quali si muove il cinema contemporaneo, e che attraversavano anche le opere in gara alla Mostra: da titoli più «narrativi» che mischiano melò e racconto di un paese come il magnifico Jours De France di Jérome Reybaud, un melò amoroso e un viaggio nella realtà della Francia attuale, a lavori di «confine» che si interrogano sulla potenza delle storie e su come spostare la rappresentazione del presente dalla cronaca alla sua essenza profonda.
È, appunto, il caso di The Last of Us, che la giuria De Laurentis con presidente uno dei nostri attori (anche regista) fuoriclasse come Kim Rossi Stuart, ha scelto per il suo massimo premio. Il film di Ala Eddine Slim, tunisino, che col precedente Babylon, il doc co-diretto insieme a Ismael e Youssef Chebb (vincitore al FID Marseille 2012) aveva raccontato filmando l’esodo sul confine tra Tunisia e Libia la guerra libica, fa parte di un «movimento» contemporaneo del cinema mondiale nell’invenzione di un paesaggio, nel modo di pensare il rapporto tra uomo e natura, e di riposizionare la presenza umana. Certo se lo vedesse chi ha strepitato contro il Leone d’oro a La donna che partì comincerebbe a sciorinare il mantra della sala e del pubblico senza considerare che oggi la sala non è più quella novecentesca e che le forme della visione si sono moltiplicate, espanse, molti cineasti infatti ripensano la stessa opera su più registri, tra installazione e film formato sala, che il pubblico specie giovane guarda i film, anche i più sperimentali, sulle piattaforme in rete ecc ecc.
The Last of Us, L’ultimo di noi, segue il viaggio di un uomo, un giovane africano che incontriamo la prima volta nel deserto, al buio, davanti al fuoco. Una sagoma uguale a tante ormai codificata nel nostro tempo, degli uomini e delle donne che attraversano i confini clandestinamente per arrivare in Europa. In città l’uomo osserva il flusso quotidiano ma «dopo essere stato nella giungla degli uomini» decide di allontanarsi. Ruba una barca, prende il largo, la barca si rompe, il mare lo porta su un’isola dall’apparenza deserta. Quello che appare come l’esperienza simile a tante altre di un migrante ci porta pian piano, nel susseguirsi di magnifici primi piani, in una dimensione fantasmatica, surreale, un poema dell’umano e dell’erranza.
Chi è quest’uomo che non pronuncia una sola parola per tutto il film – lo incarna modulando con lo sguardo e ogni muscolo infinite gamme emozionali Jawher Soudani) non lo sapremo mai. Ma il suo corpo invisibile agli sguardi di tutti coloro che lo sfiorano è quello dei migranti che sono numeri, statistiche, presenze senza nome, senza volto, inghiottite da questo anonimato: l’ultimo di noi.
Però a Slim non interessa il film a tesi, la sociologia della migrazione, quel corpo che vaga in un paesaggio industriale e di detriti d’umanità trasforma la cronaca in poesia, pensiero, mito. Acqua, aria, terra; distaccandosi dalla cronaca del suo stato, il protagonista senza nome appare come una metafora consapevole della solitudine, di una presenza umana frammentata tra le ciminiere delle fabbriche davanti al mare e in quel paesaggio di una natura nella quale finirà per dissolversi.
Non è nostalgia di un’impossibile wilderness quanto piuttosto invenzione di una forma: la foresta, le montagne, un passaggio che sottrae il corpo anonimo dell’uomo alla Storia, a quanto lo definisce «migrante» per proiettarlo in una dimensione arcaica, e surreale, che precede la parola.
La bellezza di ogni inquadratura non cerca mai la seduzione ma nemmeno lo sconcerto: i passi di N, così si chiama il protagonista entrano nella vertigine del presente, nel sentimento di una realtà oltre alla sua rappresentazione.
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