Franco Mulas se n’è andato venerdì 3 marzo all’età di 85 anni. Anche se il suo fisico era indebolito da una patologia renale, il suo aspetto non rifletteva l’età. Magro, sbarbato, i suoi occhi giovani non avevano subito l’affronto inesorabile del tempo. Negli ultimi cinquant’anni è stato uno dei protagonisti della pittura italiana. Impossibile inquadrarlo in una corrente pittorica. Per alcuni critici è stato l’artista del “dramma del paesaggio”, per altri uno degli interpreti più originali della Pop Art italiana. Per altri è stato il pittore della rivisitazione onirica della classicità, perfino quando dipingeva i poliziotti delle manifestazioni del ’68.

Fra il 1968 e il 1969 dipinse infatti una serie di dipinti ad olio su tavola, ispirati al maggio francese e in generale alla contestazione. Entrambe le serie sono state presentate in varie esposizioni a Bolzano, Bologna, Berlino (1974). Quella mostra sul ’68 non è mai invecchiata ed è stata riproposta a tanti anni di distanza a Roma nel 2018, costruita tutta intorno ad uno dei suoi quadri più famosi, “L’immaginazione non ha preso il potere”. Sullo sfondo del quadro si vedono dei poliziotti schierati in assetto di guerra, in primo piano un giovane in camicia con una maschera bianca imbrattata di rosso. Quasi un’anticipazione delle maschere usate dai movimenti degli anni 2000. “Lo sai perché quel quadro non è mai invecchiato?”, mi disse una volta che ero andato a trovarlo nel suo studio a Roma. “Perché non ho dipinto le divise della polizia o dei carabinieri, ma dei poliziotti, senza tempo riconoscibili e irriconoscibili al tempo stesso”.

Franco Mulas era così. Non si faceva incasellare, non rappresentava, ma interpretava il presente. Come scrive Tommaso Di Francesco in una delle presentazioni della mostra romana, Mulas non è stato il pittore del Sessantotto, “ma era sessantotto lui stesso, protagonista con altri milioni di esseri umani che in tutto il mondo, scendevano in piazza e dentro le loro esistenze, a riaffermare che ribellarsi è giusto”. A questa sua coerenza è sempre rimasto fedele. Ha cambiato i soggetti, lo stile, il modo di usare i colori e impastarli. I colori si sono via via mescolati e dalla precisione fotografica degli anni Settanta, si è passati ad una tavolozza più lavorata e spesso quasi astratta. Dalle montagne con le cascate, si è passati a paesaggi spacchettati, inseriti su mattoni sovrapposti, fino ad arrivare agli “spaesaggi”, figurazioni che ricordano il finale di Zabriskie Point.

Una delle sue piste preferite è stata proprio quella dedicata alla natura. Rivedendo i suoi quadri (dagli spaesaggi ai più recenti calendari) ci si rende conto di una transfigurazione. L’oggetto naturale è catturato, ma rielaborato nella fantasia del pittore: l’albero (come quello in onore di Mondrian), le radici, le foglie si trasformano, si trasfigurano appunto in suggestioni cromatiche. La natura esplode e ci parla. Consegnandoci un messaggio ecologista ante litteram, perché il Pianeta era diventato un “Big Burg” già nel 1991.

Negli ultimi anni aveva riscoperto anche il rapporto con le nostre radici e in particolare con il meridione e con la sua storia sociale e culturale, attraverso varie mostre nel Molise. Negli stessi anni ha fatto omaggio a grandi scrittori come Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Ma le sue tracce più importanti le dobbiamo andare a cercare nei meandri dei suoi “Calendari”: piccoli segni rossi (gli eventi) in una giungla o forse in una grande Rete inestricabile che tutto avvolge. L’ultimo evento in rosso è il giorno della sua scomparsa. Addio Franco.