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Luke Mogelson, Philip Dick alla guerra civile di Trump

Luke Mogelson, Philip Dick alla guerra civile di TrumpJasper Johns, «Three Flags», 1958, New York, Whitney Museum

Reportages dall’America Una distopia divenuta realtà... L’inviato del «New Yorker» Luke Mogelson racconta i novi mesi che precedettero l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio: «La tempesta è qui», da Orville Press

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 maggio 2023

Nel febbraio 1974, ricevendo la commessa di farmacia che gli portava a casa l’antidolorifico per un intervento al dente del giudizio, Philip K. Dick fu colpito dal ciondolo al collo della ragazza: l’ichthys, il simbolo del pesce usato dai primi cristiani. Il banale episodio scatenò in Dick una tempesta psichica di cui avrebbe provato a tracciare i contorni nelle ottomila pagine di appunti noti come l’Esegesi. Resoconto di una rivelazione mistica, tentativo di auto-interpretazione, memoria schreberiana: in mezzo a quel fiume tumultuoso, la convinzione che l’Impero romano non fosse mai crollato e che la realtà fosse un’illusione creata dal potere. Nixon era l’incarnazione visibile di quel regime occulto e lo stesso Dick era chiamato a combatterlo alla testa di un gruppo di cristiani sotto copertura. Tra paranoia o profezia, l’esperienza di Dick replicava i temi della sua letteratura: la realtà dietro la realtà, la lotta gnostica contro le forze che impediscono alla verità di svelarsi. Temi fino ad allora relegati ai pulp magazine che accoglievano i romanzi di Dick, ma che avrebbero permeato lo storytelling di Hollywood, dalla traduzione diretta di Blade Runner a quelle, mediate, di The Truman Show, Dark City, Matrix. Pochi autori si sarebbero rivelati, come Dick, capaci di gettare le basi dei miti di fine millennio. Il passo successivo sarebbe stato lo scivolamento (o meglio: la precipitazione, per usare una metafora chimica) di quei miti nell’immaginario politico: un processo in pieno svolgimento nella nostra epoca, e di cui non sappiamo ancora indovinare l’esito.

A tutto questo viene da pensare leggendo La tempesta è qui di Luke Mogelson (Orville Press, traduzione di Francesco Pacifico, pp. 444, € 22,00), cronaca di (quasi) un anno politico pericoloso negli Stati Uniti: i nove mesi che precedono l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 per opera dei sostenitori del presidente uscente Trump. Quanto di più lontano, in apparenza, dalla speculative fiction (il grande contenitore che comprende fantascienza, distopia ecc.). Eppure, la tempesta del titolo ha come riferimento il giorno del giudizio della narrazione cospirazionista di QAnon, in cui Trump avrebbe sconfitto la cabala satanista-pedofila-liberal che regge segretamente il mondo. L’universo pseudoreligioso/seriale di QAnon è permeato di stilemi dickiani, è come un’isola di rifiuti narrativi che si sono aggregati nell’oceano della psiche collettiva, ma è un fatto – riportato da Mogelson – che una cifra tra il dieci e il trenta per cento degli americani crede almeno in parte a queste teorie, e la percentuale aumenta tra i repubblicani, raggiungendo il cinquantasei per cento. I numeri portano la distopia sul piano della realtà, e in effetti l’unica «tempesta» che la storia abbia registrato non è stata il trionfo del cavaliere senza macchia Trump contro i pedofili liberal, ma l’attacco al Campidoglio, che da Trump è stato più o meno velatamente istigato.

Al centro del libro di Mogelson, c’è una guerra civile strisciante tra due Americhe: una che crede in un conflitto immaginario, l’altra che combatte una battaglia reale. La prima ha bisogno di abbandonarsi alle suggestioni che le consentono di dipingersi minacciata da un virus inesistente (il Covid) e da poteri centrali dittatoriali, dalla cabala satanista sopra citata, dalla sostituzione etnica oppure truffata da elezioni truccate (quelle del 2020 che hanno visto la vittoria di Biden). L’altra deve invece confrontarsi con il razzismo mai sconfitto, la violenza della polizia, l’integrazione sociale non riuscita, le libertà civili calpestate. La battaglia è senza esclusione di colpi, e la violenza che sprigiona rischia di far perdere di vista le motivazioni dello scontro e le ragioni delle parti in causa.
Mogelson tiene questo obiettivo davanti a sé come una bussola, fa parte del suo imprinting di reporter di guerra: parla la lingua dei conflitti, è stato arruolato nella Guardia Nazionale e si è formato – tra l’altro – al centro di medicina militare di San Antonio (Texas), dal 2013 ha raccontato per il «New Yorker» e il New York Times le guerre in Afghanistan, Siria e Iraq; ha parlato dei drammi dei veterani nella raccolta di racconti These Heroic, Happy Dead (2016).

E ha ben chiaro che le guerre fuori dai confini non sono senza rapporto con la «tempesta» raccontata nel libro. Il trauma provato dai reduci dei conflitti più recenti, osserva con efficace penetrazione del problema, anche se simile a quello dei sopravvissuti al Vietnam ha un esito politico diverso: allora si era fatto collettivo, aveva lacerato le coscienze di una generazione intera. Oggi invece i soldati professionisti sono meno dell’uno per cento della popolazione, e le loro azioni vengono percepite dagli altri cittadini in modo astratto. Al ritorno dal fronte, sostiene Mogelson, si avvicinano ai movimenti di estrema destra non perché si sentano abbandonati o traditi dalla patria. Piuttosto, è come se «cercassero – e trovassero – una conferma dello status di guerrieri … sono parsi gratificati dalla possibilità di dimostrare ancora una volta di essere disposti a dare la vita per una causa – una qualsiasi». A pochi mesi dall’insediamento, Trump scatenava offensive micidiali a Raqqa e in Afghanistan, «uno spettacolo di violenza senza precedenti seguito dall’indifferenza, anch’essa senza precedenti, per la desolazione umana e fisica provocate». Al silenzio sulle guerre reali, mantenuto in modo deliberato quando la maggioranza della nazione era irretita dal motto America first e chiedeva il disimpegno dagli scenari internazionali, avrebbe coinciso nell’ultimo anno di presidenza il caos sollevato contro il «nemico interno», secondo un vecchio tic totalitario: Antifa e il movimento Black Lives Matter bollati come terroristi, i democratici rappresentati come pronti a riprendersi il potere in modo illegittimo. «Una guerra reale andava sentita in casa.

Anzi, forse una guerra reale… andava scatenata in casa»: quel conflitto immaginario avrebbe portato una parte d’America a vedere a tutti i costi, nella notte delle elezioni presidenziali, i segni di brogli elettorali. E quando tutte le presunte prove si rivelavano semplici illazioni o allucinazioni, quando ogni tribunale respingeva i ricorsi repubblicani, alla vigilia del 6 gennaio Rudolph Giuliani e un pugno di legali di Trump si ritrovavano all’hotel Willard di Washington per mettere in atto il piano che avrebbe riportato il tycoon al potere: fare pressione sul vicepresidente Pence affinché non ratificasse il risultato del voto e avviasse una procedura che avrebbe finito per concedere a Trump la vittoria in sette stati che i repubblicani ritenevano contesi. Un colpo di stato, in poche parole. Nello stesso hotel, in una notte di quasi sessant’anni prima, Martin Luther King scriveva il discorso che tutti avrebbero ricordato per la frase I have a dream…

Fallito il coup, l’attacco al Campidoglio d’inizio gennaio avrebbe ancora una volta visto la storia americana confondersi pericolosamente con i simboli della sua letteratura, il naufragio violento e la caccia alle streghe: forse è azzardato, ma non impossibile leggere l’«angoscia strisciante» da cui Mogelson si dice assalito nelle prime righe del libro come un’evoluzione dello spleen di Ishmael in Moby Dick, e il crucible del sottotitolo (perché non appare nell’edizione italiana?) come un rimando al Crogiuolo di Arthur Miller. Certo, lo scrupolo giornalistico di Mogelson, la sua volontà di testimoniare e spiegare, oltre all’alto tono morale della sua voce, non sempre fanno il paio con una uguale finezza del racconto (era proprio necessario il riferimento un po’ snobistico al giovane trumpiano «basso e sovrappeso, con lineamenti vagamente porcini che a scuola dovevano essergli costati cari»?). Eppure, va riconosciuto che questo reportage racconta un mondo che nessun romanzo, finora, ha provato a penetrare. E depone così a favore dell’idea che il curatore e ideatore di Orville Press, Matteo Codignola, porta avanti già dai tempi del suo lavoro come editor presso Adelphi: quella secondo cui la narrativa più interessante, oggi, è lontana dai territori della finzione.

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