«Non sono una persona normale. Vivo sempre un po’ al di fuori della realtà» si sente dire da Luc Moullet nelle prime sequenze di La terre de la folie (2009). Un sorta di «prologo» in forma confidenziale che sembra essere lì a ricordarci con l’umorismo che gli appartiene la natura stessa del cinema, quel porsi cioè sempre obliquamente al mondo, ai suoi codici, alle sue regole per catturarne la profondità.

Il regista, sceneggiatore, scrittore, critico, attore francese è protagonista di un omaggio al festival di Trento – che si apre oggi, e dove sarà a presentare i suoi film dal 3 al 6 maggio. Appuntamento questo che gli è particolarmente caro, come si legge infatti nella presentazione della retrospettiva curata da Sergio Fant, nel 1964 Moullet firma un saggio sui «Cahiers du cinéma» – ai quali aveva iniziato a collaborare a diciotto anni – Nécessité de Trento, in cui affronta il rapporto tra cinema e montagna a partire proprio dal festival di Trento.

«La montagna – scrive – è parte integrante e necessaria della vita e quindi del cinema. Il cinema di montagna non è una specialità per iniziati, e non si può farne a meno, come del cinema di animazione. È un dato di fatto e una necessità estetica. Che qui lo si sia dimenticato per tredici anni ora mi autorizza, mi obbliga a occuparmene».

Jean-Pierre Léaud in «Une aventure de Billy le Kid» (1970)

A TRENTO Moullet ritornerà anche l’anno dopo con due progetti in mente da girare nelle Dolomiti, Votex e Gusela poi mai realizzati.

Ma la montagna (è anche alpinista) è la sua passione, un paesaggio che abita le sue immagini, colto con un senso dello spazio che ne muta le coordinate più familiari – fisicamente e emozionalmente – tracciando una geografia intima, quasi un’ossessione.

Come le Alpi del Sud, le sue personalissime badlands piene di burroni che tornano in tanti suoi film, da Terres noires (1961), il suo secondo cortometraggio a La terre de la folie, ogni volta diverse, ogni volta una scoperta inattesa.

«Sono sempre stato per la politique des hauteurs» ha detto giocando tra «altezze» (hauteurs appunto) e «auteurs» (autori). Nella sua Storia del cinema Georges Sadoul lo ha definito «il franco tiratore del cinema francese» autore di un’opera «ai margini, caratterizzata dall’umorismo e da un noncurante rigore». La comicità Moullet la rivendica: «Voglio fare film che fanno ridere su soggetti seri, marxismo, taylorismo, vagina e clitoride» afferma nel suo libro, Mémoires d’une savonnette indocile (Capricci), ’autobiografia che ripercorrela sua vita di autore« tuttofare».

La redazione consiglia:
Al Trento Film Festival apre Hazanavicus

NATO nel 1937, cinefilo o così si racconta sin da piccolo – «ho cominciato a guardare film a nove anni» – frequentatore instancabile dei cineclub parigini e della Cinémathèque, è lì che conosce Rohmer e quel gruppo di giovani critici francesi, divenuti poi registi, che cercano di rinnovare la produzione nazionale liberandola dalle polverose eredità dei papà.

Inizia a scrivere per i « Cahiers» di Bazin – articoli tra gli altri su Fuller e Ulmer – frequenta Truffaut, Rivette, Chabrol, Godard. E grazie a quest’ultimo che gli presenta il suo produttore, Georges de Beauregard – «avevo scritto un articolo su A bout de souffle» – gira il suo primo film, un cortometraggio, A steak trop cuit (1960) col quale inaugura una filmografia densa, disseminata di diverse piste, intraprendente, resa dalla sua sua presenza sullo schermo un «corpo-cinema», che deve confrontarsi spesso con condizioni produttive minime. L’ironia è la sua cifra, con quella stessa libertà della sua scrittura critica mescola selvaggiamente generi e forme – autofinzione, western, fantastico, film-saggio, commedia, poliziesco – trasformati dal suo sguardo quasi naif sul mondo in un gesto liberatorio.

La redazione consiglia:
È il Giappone la «destinazione» del Festival di Trento

Nove i film nel programma di Trento, da Terres noires (1961), la storia di due villaggi, Mantet nei Pirenei e Mariaud nelle Alpi, che a causa della mancanza di strade sono praticamente scomparsi dal mondo. Secondo cortometraggio del regista, ci porta in quel territorio che diviene poi il suo universo. A Les contrabandièrs (1967) in cui due contrabbandiere scoprono di avere lo stesso uomo, dando vita a un duello nelle Alpi del sud tra inseguimenti e avventure immaginate – quasi una dichiarazione di poetica nella sua idea di «contrabbandare» un genere noto per non spaventare troppo chi guarda e fare invece «quello che ti passa per la testa».

HOWARD Hawks è il riferimento di Une aventure de Billy le Kid (1970), un western (o il suo rovescio?) con Jean Pierre Leaud, girato in sei giorni. E ancora Les Naufragés de la D17 (2002) di cui è protagonista Mathieu Almaric, astrofisico che si avventura in un universo caotico di personaggi isolati e ormai incapaci di comunicare. Scrive ancora Moullet:«Visto che sono rimasto al livello dell’apprendistato ho continuato a filmare le montagne. Forse un giorno, dopo cinquant’anni di carriera, mi sentirò abbastanza pronto per filmare qualcos’altro».