«Quanto accaduto nel corso dell’ultimo anno rappresenta un’ulteriore escalation della violenza. Dal 2005 non avevamo un numero tanto alto di uccisi, oltre 230 palestinesi nel 2022. Aumentano le azioni dei coloni, i piani di costruzione delle colonie e le operazioni di pulizia etnica di intere comunità. È in corso una guerra contro il popolo palestinese».

Jamal Juma è tra gli attivisti palestinesi più noti: cresciuto politicamente con la prima Intifada, dal 2002 è il coordinatore della campagna Anti-Apartheid Wall e dal 2012 della Land Defense Coalition.

La nascita di quello che è stato definito il governo più a destra della storia di Israele inasprirà l’occupazione?

Questo nuovo governo ha l’obiettivo di mettere fine alla questione palestinese, di cementare il regime di apartheid. Parla di una rivoluzione coloniale: 18mila nuove case per coloni, annessione di parti importanti della Cisgiordania. E, ancora peggio, lo fa uccidendo quotidianamente palestinesi. Oggi basta alzare la voce con un soldato a un checkpoint per essere uccisi. Israele ha fretta di realizzare alcuni dei suoi obiettivi, come lo svuotamento di Masafer Yatta e del villaggio beduino di Khan Al Akhmar, la costruzione di colonia e la confisca di terre. E vuole farlo senza alcuna resistenza da parte palestinese. È questo il messaggio: se protestate, sarete uccisi. Questo genera grande rabbia e frustrazione, anche di fronte al silenzio della comunità internazionale che non condanna alcuna azione israeliana, nemmeno le più recenti, come il massacro nel campo profughi di Jenin. Non abbiamo sentito alcuna voce di condanna.

Come pensate che i palestinesi debbano reagire? Vi aspettate che ci nasconderemo in casa, spaventati a morte? Parliamo di un popolo che combatte da un secolo, dal colonialismo britannico, massacro dopo massacro, catastrofe dopo catastrofe, e che non si è mai arreso. E non lo fanno i singoli: gli attacchi degli ultimi giorni sono stati commessi da individui, uno di loro aveva 13 anni. Non è una resistenza organizzata da partiti politici, ma azioni nate dalla disperazione dei singoli che non hanno motivi di speranza. Con i coloni che attaccano le comunità, bruciano case e auto sotto gli occhi dei soldati, i palestinesi provano a difendersi da sé. Se continua così assisteremo a un’altra sollevazione. Il crimine commesso contro i palestinesi non è un fatto estemporaneo, va avanti da sette decenni. E non se ne vede la fine. Sono due le opzioni: o ci arrendiamo lasciando che Israele ci chiuda dentro ghetti che sembrano le riserve degli indigeni nordamericani, o ci difendiamo.

L’obiettivo di massimizzare i palestinesi in spazi minimi, di fronte alla crescita della popolazione, appare una strategia impossibile da perseguire senza reazioni.

Oggi Israele procede chiudendoci in ghetti, privandoci del controllo delle nostre risorse naturali e dell’accesso alla terra. È una pulizia etnica di lungo periodo: con la creazione di tante piccole Gaza in Cisgiordania, quei luoghi già di per sé sovraffollati tra 30-40 anni saranno invivibili con una popolazione triplicata. Che ci aspetta? Una vita insopportabile, fatta di isolamento e nessuno sviluppo economico, che ci spingerà ad andarcene da soli.

Prima parlava, nel caso degli ultimi attacchi palestinesi, di azioni di singoli, spesso molto giovani. La mancanza di una strategia nazionale palestinese ha come effetto la reazione individuale?

Uno degli attentatori aveva 21 anni, uno 13. Vivevano a Gerusalemme, in quartieri colonizzati. A ciò si è aggiunta è la rabbia per il massacro commesso dall’esercito israeliano a Jenin e la frustrazione verso l’Anp, responsabile della nostra sicurezza, che fa l’opposto, si coordina con Israele per la sicurezza. Tutto questo genera frustrazione nelle giovani generazioni. Non vedono alcuna possibilità di una vita normale. Ne vedremo altri arrivare alle stesse conclusioni.

I combattenti armati tra Jenin e Nablus vengono visti da molti come eroi e come gli unici che, superando barriere politiche, collaborano a fronte delle divisioni dei partiti politici.

La gente li vede come fonte di speranza perché hanno dato vita a un’unità nazionale, da Fatah alla Jihad islami alle formazioni della sinistra. Sono insieme in una stessa piattaforma, un caso unico di unità che avvicina le giovani generazioni a fronte di partiti politici incapaci di superare la divisione tra Fatah e Hamas, una divisione che non ha a che fare con la Palestina ma con agende esterne. Europa e Usa non permetteranno mai un’unità tra Cisgiordania e Gaza e tra Fatah e Hamas: snaturerebbe la funzione dell’Anp. Non credo che la lotta armata in Cisgiordania possa avere un futuro alla luce della repressione dell’intelligence e dell’esercito israeliani e anche dell’Anp, non credo cioè possa diventare una resistenza organizzata e ampia. Continuerà così, con un ricambio continuo visto il numero di uccisioni mirate e di arresti.

Quanto incide la situazione socio-economica? A Gaza l’assedio ha provocato una miseria senza precedenti. In Cisgiordania la povertà cresce o è in atto una sorta di strategia «economica» da parte israeliana e dell’Anp, sotto forma rispettivamente di permessi di lavoro e impieghi pubblici per controllare la rabbia della popolazione?

Non credo che l’Anp abbia una strategia, la sua è mera sopravvivenza. Israele invece ne ha una: apre il mercato del lavoro ai palestinesi mentre gli confisca le terre e li priva delle risorse naturali, con il 62% di Cisgiordania di fatto annessa, quella più ricca di risorse e terre, in grado di rilanciare un’economia interna. L’obiettivo è renderci dipendenti dal mercato del lavoro israeliano. Un piano di sviluppo di lungo periodo non è possibile sotto occupazione: il commercio palestinese passa da porti e aeroporti israeliani, le tasse sono raccolte da Israele e in un modo o nell’altro confiscate. Non c’è libertà economica, anche a fronte di un’agenda neoliberista dell’Anp che ha concentrato in poche mani la ricchezza interna e allargato il gap tra una piccola e molto benestante borghesia e il popolo, sempre più povero.