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L’ossimoro del riformismo neoliberista

L’ossimoro del riformismo neoliberistaIl risveglio del Terzo Stato, incisione anonima del 1789

Commenti Re-formatio ha chiaro il significato etimologico, quello del ritorno ad una forma originaria. Solo da due secoli «riforma» si lega a un’estensione della democrazia e dei diritti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 luglio 2023

Quando Tajani ha sostenuto che l’introduzione del salario minimo in Italia sarebbe stata una misura «sovietica», Calenda, ben a ragione, ha definito l’affermazione «una imbecillità». Mi permetterà colui che ha il pregio di esprimere ed esercitare con ammirevole chiarezza pratiche ed ideologie neoliberiste, di ritenere le sue considerazioni sul «riformismo» alla stregua di quelle di Tajani sul «sovietismo»?

Il fatto che tale uso del concetto di riformismo sia moneta corrente del mercato politico nel tempo della miseria della politica, non cambia la sostanza della questione.

A PARTIRE DAGLI ANNI Novanta le varie Cose ed il Pd sono stati tra i principali coniatori di quella moneta. La ragione è evidente. L’operazione in corso di inversione della direzione diventava più facile se si riusciva a mantenere un’area di ambiguità tra la nuova e reale prassi delle ri-forme come re-azione e la nobile tradizione del riformismo.

«Una democrazia vive se la parola è operante (…) la parola ingiusta non si confonde con la parola giusta», avvertiva Italo Calvino. Siamo nel 1977 e Calvino stabilisce un importante rapporto tra qualità della democrazia e parole che non confondono i significati, tra democrazia e qualità del discorso pubblico. Proprio il linguaggio, infatti, è spia essenziale di processi di mutamento che investono la società e la politica.

RE-FORMATIO ha chiarissimo il significato etimologico, quello del ritorno ad una forma originaria. Solo il processo storico ha legato, da più di due secoli, il termine riforma ad una prospettiva di ampliamento tendenziale della democrazia nelle sue forme non solo politiche, ma anche economico-sociali.

Alla vigilia della Rivoluzione francese si scontrano due progetti di ri-forma del sistema fiscale dello Stato, un sistema fiscale che è la risultante dei continui aggiustamenti conseguenti alle diverse fasi dell’assestamento assolutistico e che quindi non ha più la forma della fiscalità feudale. Lo scontro, durissimo, ha, dunque, come oggetto la direzione dell’ormai necessario mutamento di forma, della ri-forma appunto. E la durezza dello scontro fu direttamente proporzionale al fatto che non di scelta tra diverse tecniche finanziarie si trattava, bensì di scelte che implicavano un profondo mutamento di equilibrio rispetto allo status quo sociale. Insomma, la ri-forma veniva definendosi come l’esito di una fase della lotta di classe, un esito che finì per determinarne la direzione.

Due i termini dello scontro: a) scegliere una modernità che legasse la soluzione del deficit pubblico ad un forte e decisivo allargamento della platea dei soggetti fiscali (nobili e chiesa compresi), un allargamento che di fatto preludeva anche a necessari e profondi mutamenti politico-giuridici nel rapporto tra le classi; b) scegliere di ripristinare aspetti della fiscalità feudale ormai andati in disuso e quindi scaricare totalmente il problema del deficit pubblico sulle classi subalterne.

AMBEDUE LE SOLUZIONI possono essere considerate come cambiamenti in meglio per il deficit dello Stato. Dal punto di vista dei rapporti sociali è necessario, però, rispondere al quesito meglio per chi? La risposta che per più di duecento anni ha dato la storia è estremamente chiara: le ri-forme sono quelle proposte da Turgot. Per gli altri si usa il termine di re-azione. Come giudicare, infatti, il «riformismo» che inserisce nella Costituzione la teoria economica dominante e che abolisce l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? E si tratta solo della parte più visibile dell’incessante lavoro dei neoriformisti nel corso del grande balzo all’indietro.

Eppure, il campo dove la tradizione del riformismo inaugurata da Turgot può e deve operare è diventato immenso. Qualche giorno fa Fabio Mussi mi ha fatto notare la «grande rimozione».

IL BALZO ALL’INDIETRO nei «trenta ingloriosi» si è concretizzato nel trasferimento di 12 punti di Pil da salari e pensioni a rendite e profitti. Una sinistra che proponesse un progetto di lotta per riforme tendenti alla restituzione alle classi subalterne di quell’immenso surplus loro sottratto, sarebbe esemplificativa di un riformismo definibile davvero, per dirla ancora con Calvino, tramite «parola operante». Il riformismo dell’antitesi.

La costruzione/ricostruzione dell’antitesi si farà (e anche in ciò non c’è nessuna predeterminazione) solo attraverso un percorso non breve e assai accidentato. Un percorso che richiede un impegno costante senza alcuna attesa risolutiva straordinaria. Un atteggiamento «riformista», insomma. Un percorso che richiede la consapevolezza che in ogni istante può esserci la possibilità di una parziale rottura del tempo determinato. Un atteggiamento «rivoluzionario», insomma.

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